Il 3 maggio 1940 Paul Nizan cadeva nella battaglia di Dunkerque. Aveva 35 anni ed era stato appena richiamato alle armi. Era uno scrittore famoso in tutto il mondo. L’anno prima aveva preso pubblica posizione contro il Patto Molotov-Ribbentrop, che considerava una inammissibile alleanza tra nazisti e comunisti, e aveva lasciato il Partito comunista francese, in cui militava da dodici anni. La risposta del PCF fu violenta ed infamante. Nel marzo del 1940 André Thorez, il segretario generale del PCF, firmò sul quotidiano Die Welt (edizione in tedesco dell’organo della Terza Internazionale) un articolo dal titolo “I traditori alla gogna”, accusandolo di essere addirittura una spia della polizia. E le accuse continuarono nel dopoguerra, al punto che lo scrittore Louis Aragon, che pure era stato suo amico, lo bollerà come spia e traditore nel romanzo “I comunisti” del 1949, presentandolo in modo trasparente sotto le spoglie del bieco personaggio Orfilat. Quella vergognosa persecuzione post mortem s’incrinò vistosamente solo quando nel 1960 Jean-Paul Sartre firmò una commossa prefazione alla riedizione di “Aden Arabie”, e Aragon eliminò dalla nuova edizione del ’66 de “I comunisti” il personaggio di Orfilat. Tuttavia, il PCF si scuserà pubblicamente solo sul finire degli anni ’70. Un grande scrittore, dunque. E una vicenda esemplare di quei tempi cupi e complicati. Noi di LEF lo ricordiamo qui a 80 anni dalla morte, pubblicando, in nostra traduzione, proprio il primo capitolo del suo notissimo romanzo del 1931, “Aden Arabie”. È un omaggio a Nizan e ai tanti che si trovarono a vivere e combattere nella tenaglia terribile del fascismo criminale e dello stalinismo feroce.

Avevo 20 anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita. Tutto invece è pieno di minacce per un giovane uomo: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra gli uomini adulti. È difficile capire il tuo posto nel mondo.
Com’era questo nostro mondo? Sembrava il caos che i greci mettevano all’origine dell’universo, tra le nuvole dell’inizio. Solo che noi pensavamo di vederlo come l’inizio della fine, della vera fine, e non come l’inizio di un inizio. Di fronte ai cambiamenti sfibranti, di cui un minuscolo numero di testimoni si sforzava di scoprire la chiave, si poteva semplicemente indovinare la confusione che consegnava alla “bella morte” tutto ciò che esisteva. Ogni cosa assomigliava al disordine che chiude le malattie: prima del trapasso che s’incaricherà di rendere i corpi invisibili, l’unità della carne dissipa, ogni segmento del disfacimento tira dalla sua parte e tutto finisce in un marciume indifeso.
Così pochissimi uomini si scoprivano abbastanza accorti da impegnare già le proprie forze su quegli immensi scomposti detriti.
Non sapevamo nulla di quello che avremmo dovuto sapere: la cultura era troppo complicata per arrivare a qualcosa di diverso dalle rughe sulla superficie. S’è tutta consumata in sottigliezze e in un mondo di ragioni, e quasi tutti i suoi conoscitori non sono stati in grado di scavare nei testi che hanno commentato. L’errore è sempre meno semplice del vero.
Avevamo bisogno di un abc per ciò che fosse veramente importante. Ma invece d’apprenderci la lettura, coloro cui un sincero tormento impediva talvolta di dormire immaginavano conclusioni tutte basate sullo studio delle decadenze comparate: conclusioni per l’invasione dei barbari, per il trionfo delle macchine, per le visioni dell’apostolo Giovanni a Pathmo, per le preghiere a Ginevra e Dio. Com’erano intelligenti tutti!
Ma questi uomini intelligenti avevano la vista troppo bassa per guardare, da sotto i loro occhiali, più lontano dei naufragi. E i giovani si fidavano di loro.
Condanne senza ricorsi, sentenze imperative: “stai per morire”. Le persone della mia età, impedite di riprendere fiato, oppresse come vittime premute con la testa sott’acqua, si chiedevano se fosse rimasta un po’ d’aria da qualche parte: dovevano perciò essere mandati a unirsi alle loro famiglie e annegare tra due acque.
Poiché ero classificato come intellettuale, non avevo mai incontrato nessuno diverso da tecnici indigenti: ingegneri, avvocati, grafici, professori. Non riesco nemmeno a ricordarla quella povertà.
Le possibilità scolastiche e i consigli prudenti mi avevano portato alla Scuola Normale, a questo esercizio ufficiale che ancora si chiama filosofia: entrambi mi hanno presto ispirato tutto il disgusto di cui già ero capace.
Per anni ho conosciuto Rue d’Ulm e, nelle sale della Sorbona, uomini importanti che parlavano in nome dello Spirito.
Sono stati questi filosofi a insegnare la saggezza nelle riviste, a scrivere libri di riferimento e buone ragioni. Entrano nelle istituzioni ufficiali, convocano congressi per decidere i progressi che lo Spirito ha fatto in un anno e quelli che rimangono da fare. Hanno nastri sul petto come vecchi gendarmi in pensione. Inaugurano targhe in marmo sui luoghi di nascita o sulle facciate delle case di morte o agli incroci delle strade. E sono queste commemorazioni a mostrar loro il Paese. Vivono quasi tutti nei quartieri occidentali di Parigi: a Passy, Auteuil, Boulogne, quartieri tranquilli, nessun rumore, pochi uomini, e le ragazze non si stabiliscono lì con un anno di ritardo. Sono i Saggi del XVI arrondissement.
Ciò nonostante, essi professano idee ben strutturate, teorie coi denti limati sulla psicologia, sulla moralità, sul progresso. Tutte astrazioni che hanno già mostrato la corda ai tempi di Jules Simon o Victor Cousin, ma essi ne fanno ancora buon uso. Sono galantuomini, dicono che la verità s’acchiappa al volo come un uccello ingenuo. Espandono messaggi sulla pace e la guerra, sul futuro della democrazia, sulla giustizia e sulla creazione di Dio, sulla relatività, la serenità e la vita spirituale. E compongono vocabolari, perché hanno scoperto, tutti assieme, una cosa importantissima: i problemi non esisteranno più quando le parole saranno definite correttamente.
Solo che proprio allora essi cadranno nella polvere: né visti né conosciuti, nessuno chiederà loro di risolverli i problemi. I filosofi saranno semplicemente i cani da guardia del vocabolario, e s’occuperanno della storia di questo nostro Medioevo, dove le parole ancora avevano molti significati. Nel frattempo, imparano a mettere da parte i pensieri pericolosi per il giorno in cui i loro pastoni evaporeranno: la ragione ne ha di tempo, li troverà all’ora che le aggrada, che non coincide con l’ora degli uomini.
Fanno così filosofia, che comunque richiede sufficiente pulizia e cura per essere onorevole, e dedicano la vita alla contabilità e alla società cristiana.
E che lingua! Mostrano tanti buoni trucchi, proverbi, figure, che non so più se, sotto la sferza dei silenzi attraversati dalle metafore del sonno e delle parole barattate coi passanti che indugiano nelle piazze, nelle caserme, nei passeggi, nelle fabbriche, io troverò mai la direzione delle parole diritte e delle semplici invenzioni degli uomini.
Tra loro, un grande pensatore: Leon Brunschwicg. Nascondeva meglio il suo gioco, con più assi nelle maniche. Una precisione di pensiero da orologiaio e un indirizzo preciso sotto l’arte dell’illusionista, che lo facevano passare a prima vista per filosofo: ma alla fine abbiamo trovato solo un Robert Houdin che gli potesse essere paragonato, e del quale si potevano contare le bugie. Questo piccolo commerciante di sofismi aveva un vecchio fisico da maitre d’hotel cui viene permesso, alla fine, di portare la pancia e la barba. L’astuzia veniva fuori dall’angolo dei suoi occhi, guidando nello spazio grigio i brevi movimenti delle sue mani sdolcinate, da mercante ebreo che lancia, con tante belle parole, i decreti della ragione e suggerisce ad ogni discorso: lasciatemi fare, tutto s’aggiusterà, io riparo tutto nelle anime e nella scienza. Poi salutava l’uditorio.
E che appetito nascosto di prebende, riposi e onori! E quale sincero terrore della verità che minaccia, quella che avrebbe potuto, per esempio, attentare al suo danaro di uomo ricco! I discepoli riuniti intorno a lui erano già pronti ad innalzare sul suo cadavere la bandiera mercenaria dell’idealismo critico!
E tuttavia, c’erano uomini che lavoravano sempre alla catena. E gli agenti di polizia marciavano per le strade, ed altri uomini morivano in Cina.
Così abbiamo fatto tutto il possibile per nascondere l’esistenza carnale dei nostri fratelli ed essere seriamente armati per i compiti di salvezza cui eravamo destinati. La borghesia nutre i suoi intellettuali raccolti in muta, di modo che non siano tentati di amare il mondo. Viviamo perciò alla lenta velocità del sonno: perché tutti sanno che sono le alte velocità a costar caro. Giravamo come ci era stato detto di girare, impegnati coi piccoli giochi di costruzione insegnatici da tutti quei funzionari. C’erano persone ovunque in campagna e nelle periferie: ma noi, noi cercavamo di fare con loro come i nostri maestri e padri tristemente accovacciati negli angoli, a volte alzatisi per far ridere i loro padroni, per consegnare loro una illusione di comando, un argomento, una giustificazione. Buffoni, complici: mestieri della mente. E di tanto in tanto pregavano che si fosse pazienti, che il mondo sarebbe stato presto salvato.