Questione di classe

Da molte parti, nel tempo della pandemia da Covid/19, si coltiva la speranza e si leva la voce affinché nulla sia come prima.

In termini oggettivi, che questa emergenza rappresenti una linea di demarcazione è fuor di dubbio. Il paragone con la guerra, per quanto improprio, coglie alcune significative analogie, a cominciare dall’abissale caduta produttiva immediata (ovviamente, in tal caso l’analogia vale per i paesi aggrediti e/o invasi; viceversa, i paesi aggressori preparano l’evento bellico preordinando le politiche finalizzate a riorientare, irregimentare e accrescere la produttività).

Così pure la prassi del governo che esautora, di fatto completamente, il potere legislativo e la limitazione generalizzata per via amministrativa delle libertà di movimento, di relazione e di approvvigionamento durante la fase emergenziale.

Ma, al di là dell’epifenomeno, è il paradigma capitalistico in quanto tale ad essere investito e posto sotto accusa per la sua nefasta attitudine a ridurre la natura e l’umano a nient’altro che merci commisurate attraverso i valori di scambio.

Non che quest’evidenza avesse bisogno di conferme, ma va da sé che la plateale défaillance della maggior parte dei sistemi sanitari, il contagio esponenziale, oltreché del morbo virale, di quello sociale con l’improvvisa sparizione di qualunque forma e fonte di reddito per milioni e milioni di persone, l’arroganza padronale verso alcune elementari misure di contenimento e sicurezza comportanti la sospensione di diverse attività produttive, la disparità di condizioni nelle forme del confinamento domestico, e via dicendo, hanno messo a nudo sfruttamento, miseria e oppressione come mai prima d’ora, svelando al tempo stesso come la strabiliante complessità e la mostruosa potenza dei moderni sistemi socio-economici siano tuttavia insidiati e vulnerati da un insignificante e invisibile agente patogeno naturale.

Eppure … Eppure, con buona pace di tanti, il capitalismo non deporrà le armi, né l’orizzonte della liberazione schiuderà come per incanto le sue porte.

Innanzitutto, se osserviamo più da vicino il lockdown delle attività produttive, ci accorgeremo che esso, al picco della diffusione pandemica, ha tenuto fuori dal perimetro fattuale del blocco (sia per le dichiarazioni di “attività essenziali”, sia per l’elusione mediante le autocertificazioni accettate dalle Prefetture) circa il 48 % dell’apparato produttivo di un paese come l’Italia (il dato è ancora più alto negli altri Paesi europei e, soprattutto, in quelli degli altri continenti: persino in Cina, nei giorni più drammatici della chiusura totale di Wuhan, la restante parte dell’apparato produttivo -fabbriche, uffici, cantieri- nel territorio circostante la “zona rossa” ha continuato a produrre).

La proiezione del blocco comporterà una contrazione secca del PIL mondiale di diversi punti. In Italia, la stima trimestrale viene scontata al meno 16%, con una proiezione sull’anno a finire valutata al meno 9,5 % . I dati relativi all’eurozona sono simili, con una media finale migliore di un paio di punti sul dato italiano per via della penalizzazione più contenuta della Germania e dei paesi scandinavi.

L’aspettativa mina e demolisce alla base due su tre dei parametri fondativi di Maastricht (ipotizzando che il tasso d’inflazione risulti stabilizzato, nonostante alcune divergenti spinte settoriali, dalla prevalenza della recessione sistemica), ossia la regola del 3 % come limite tendenziale del rapporto tra disavanzo pubblico annuale e PIL annuale nonché la regola del 60 % tendenziale del rapporto tra debito pubblico e PIL (regola, questa, “temperata” finora in presenza di attivi di bilancio primario, ossia al netto degli interessi sul debito pubblico, ottenuti ovunque fissando la spesa pubblica di scopo  -sostanzialmente, il welfare-  ad di sotto del prelievo fiscale complessivo).

Non occorre essere degli esperti di matematica per capire come il contemporaneo incremento del numeratore e decremento del denominatore di entrambi i rapporti (deficit/pil e debito/pil) demolisca di fatto Maastricht, ben al di là della sospensione innescata dalla Commissione (l’attivazione della “clausola di salvaguardia” del Patto di Stabilità) onde consentire l’adozione delle misure di sostegno sanitario e sociale nell’emergenza e nel dopo/emergenza (ammesso e non concesso che una tale distinzione abbia effettivo fondamento…).

La situazione è resa esplosiva dalla circostanza che tre dei Paesi fondatori dell’unità europea -Italia, Francia e Belgio-  si troveranno a dover finanziare un debito nazionale che oltrepasserà il 100 % (per l’Italia, oltre il 150 %), senza il contrappeso dell’avanzo di bilancio primario, data ragionevolmente l’impossibilità, quantomeno nel breve periodo, di poter contenere il ricorso alla spesa pubblica corrente, in particolare quella a sostegno dei redditi.

Ciò apre la partita tra le due linee che si fronteggiano oggi nell’ambito dell’Unione Europea: la prima, disponibile solo ai finanziamenti senza condizionalità attuali tranne quelle “di scopo”, ne suppone e pretende il ripristino “ordinario” entro uno o al massimo due bilanci europei; la seconda, propensa ad un incipit di condivisione del debito, attraverso un meccanismo ancora non definito, imperniato sul Recovery Found, alimentato dall’emissione di titoli gestito dalla Commissione attraverso la garanzia del bilancio europeo e l’acquisto operato dalla BCE, generando così una leva potenziale intorno ai 1500 miliardi di euro, ma con un nucleo effettivo di risorse immediatamente disponibili per i singoli Paesi ben al di sotto di tale soglia.

In realtà, il contrasto tra le due opzioni (al netto della sentenza “sovranista” dell’Alta Corte tedesca, in grado di innescare effetti esplosivi e dirompenti) sottende uno scontro di natura e portata politica fra la linea orientata a mantenere l’Unione europea nei limiti di un’istituzione confederale di coordinamento dei governi piuttosto che degli Stati e la linea disposta ad un passo significativo nella prospettiva di uno Stato federale.

Questo scontro preclude, al momento, la strada verso la monetizzazione del debito, che avrebbe l’enorme vantaggio di non gravare sui bilanci (dato l’attuale livello di contenimento inflazionistico), ma implicherebbe una spinta decisiva verso la trasformazione della UE in direzione di un’istituzione federale, il cui obiettivo appare oggi fuori portata politica.

Ma, nel quadro dello scenario recessivo, lo stallo rischia di travolgere, come i tasselli del domino, prima i Paesi del Sud/Europa e, con essi, la stessa UE, poi, a ruota, anche i Paesi del blocco centro/nordico  e, sostanzialmente, la Germania, che perderebbe la rendita di posizione oggi garantitale dallo spread, dall’avanzo commerciale e dal posizionamento sistemico organizzato essenzialmente su imprese finali nelle GVC (Global Value Chains) cui verrebbe a mancare il supporto delle imprese fornitrici  (Italia).

Per quanto la condizione tedesca sia migliore (essendo comunque più semplice sostituire una o più imprese fornitrici con altrettante insediate in altri territori), l’indebolimento delle “retrovie” delle catene di valore spiegherà i suoi effetti negativi anche sulla tenuta della “prima linea”, facendo retrocedere inevitabilmente, nelle nuove gerarchie internazionali, anche i più solidi tra i paesi europei e marginalizzandone il ruolo nella ridefinizione dei rapporti di forza a scala internazionale (soprattutto nello scenario di quella che viene chiamata “la nuova guerra fredda” tra Stati Uniti e Cina).

La linea “nordeuropea” mirerà a salvaguardare il fronte sociale interno, spingendo affinché siano i fronti interni “sudeuropei” a trovarsi esposti ad una nuova riedizione dell’austerità: ma così facendo, si esporrà anch’essa, come già detto, ad un sensibile indebolimento nel medio periodo.

La linea “sudeuropea” proverà a cercare un equilibrio nel breve, onde rilanciare l’orizzonte europeista innanzitutto evitandone la dipartita.

Nell’uno e nell’altro caso, appare difficile scansare l’alternativa secca tra un vero rilancio della prospettiva europea e l’approdo devastante ai nazionalismi aggressivi, fascistoidi e xenofobi. L’antagonismo del nuovo proletariato, dilatazione globale della figura di quell’operaio sociale che chiuse il ciclo degli anni ’70 sull’onda dei primi segni anticipatori della futura e dilagante ristrutturazione/rivoluzione informatica, dovrà tuttavia svincolarsi da una tenaglia davvero esiziale.

Da un lato, l’oggettivo cedimento dei preesistenti argini classisti, sia nelle versioni riformiste che in  quelle fortemente conflittuali o rivoluzionarie, espone l’eterogenea e sterminata composizione del nuovo proletariato all’impatto/ricatto dei sovranismi, che sotto il profilo sociale sono una sorta di riproposizione dell’idea che “ci si salva da soli” (la singola fabbrica, la singola vertenza, il singolo territorio, il singolo paese …), che è la reazione complementare al blocco dell’ascensore sociale e al terrore dei ceti medi e medio/bassi di essere risucchiati verso l’estremo inferiore della scala sociale.

Dall’altro, la difficoltà di praticare una “ricomposizione” – come si sarebbe detto una volta – sia sul piano immediatamente rivendicativo che su quello propriamente politico rappresenta oggi un deficit tutt’altro che trascurabile, qualsiasi cosa si pensi del tema “organizzazione”.

Occorre infatti prendere atto, empiricamente e immediatamente, che anche la diffusa consapevolezza delle cause capitalistiche della crisi economica, sociale e ambientale e della soggettiva capacità di sabotare la produttività sistemica non si traduce di per sé in una seria alternativa di vita, di società e di potere.

E’ da troppo tempo che non si riesce a declinare con fantasia, intelligenza e coraggio il tema dell’unità e della ricomposizione, perché c’è una sorta di “coazione a ripetere” che tende ad affrontarlo immancabilmente “dalla coda”, cioè dalle forme (non importa quanto grandi o piccole, quanto “sindacali” o “partitiche”, quanto organiche o movimentiste) invece che dall’inizio, ossia dalla essenzialità dell’obiettivo e dalla necessaria conoscenza/intelligenza per costruire un percorso concreto, praticabile e comprensibile, scevro dai condizionamenti delle storie passate, che per quanto nobili e generose, non servono né possono ipotecare il futuro.

Di fronte ai primi scioperi dello smart/working e alle mille insorgenze pulviscolari, diventa decisivo costruire il baricentro di una proposta di unità sull’essenziale: un nuovo statuto dei diritti dei soggetti sociali che cooperano con il lavoro, con lo studio, con la vita di relazione e con la cura delle persone e dell’ambiente.

Meno orario, più salario e reddito per tutti, più salute, più sicurezza, più solidarietà e condivisione. Per una nuova stagione di lotta, per la trasformazione e il superamento dello stato di cose presente.

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