La crisi pandemica è la crisi del capitale?

1) Di questi tempi, quelli che aspettavano che prima o poi arrivasse la benedetta “crisi finale” del capitalismo hanno ripreso a sperare.

Non fu crisi finale quella che seguì il primo conflitto mondiale, cui i capitalisti risposero con straordinarie mobilitazioni di energie, sia nella versione autoritaria nazi–fascista, sia nella versione democratica roosveltiana. Non lo fu neanche la crisi dopo il secondo conflitto mondiale, alla quale si reagì con la più smisurata ri-accumulazione mai vista, proporzionata alla gigantesca distruzione provocata dalla guerra. E non è stata risolutiva neppure “la campagna che assedia la città”, nell’epoca delle lotte di liberazione nazionale, la cui spinta eversiva si esaurì abbastanza rapidamente…

Poi sono venute la rivoluzione informatica, la globalizzazione, la totalizzazione del rapporto di capitale, la caduta del muro e la mondializzazione della forma occidentale dell’economia. Insomma, la crisi finale non si è vista più, neppure da lontano.

Certo, ci sono state e ci sono le crisi ambientali, il riscaldamento globale, la desertificazione, le migrazioni bibliche, le aree di conflitti irrisolti, la competizione feroce tra macrosistemi, le crisi finanziarie. Ma nessuno di questi oggettivi “fattori di crisi” appare veramente decisivo. I capitalisti vi fanno fronte a modo loro, con risposte che non sono le nostre e con armi molto articolate, alcune delle quali prevedono l’uso della forza, altre no. Così, se per normalizzare aree del mondo irrequiete sono state e saranno usate le armi, sui temi dell’ambiente si studiano strategie diverse: la “Green Economy” ad esempio, un modello di neocapitalismo che potrebbe anche funzionare per un bel po’.

Del resto, non abbiamo sempre saputo che il capitalismo, per sua stessa natura, convive perennemente con la crisi? E anzi, che la crisi costituisce addirittura il suo requisito innato, il lavacro periodico col quale evolve e cresce? Va da sé, quindi, che la prudenza è d’obbligo nel giudicare i passaggi di fase storica.

Ora c’è questa crisi, la pandemia, che ha dimensioni mondiali, imprevedibilità, velocità, forza devastante; tutti elementi che da tempo non si vedevano e che in qualche modo stimolano la domanda decisiva: il capitalismo affronterà e supererà indenne, se non addirittura rafforzato, anche questa crisi? Oppure, finalmente, qualcosa comincerà a scricchiolare nell’impianto economico–sociale, con guasti che difficilmente saranno risanati?

Non ci sono, per ora, risposte. Anzi, LEF giustamente sostiene che non è il tempo delle risposte, quanto piuttosto quello delle domande.

Allora io ne pongo alcune.

2) Su cosa effettivamente agisce la crisi determinata dalla pandemia, dal punto di vista del rapporto sociale di capitale?

Sembra una domanda banale. Con l’economia praticamente ferma, le merci non prodotte e i commerci azzerati, appare del tutto evidente che la pandemia sta costando ai capitalisti moltissimi soldi, con perdite che gli economisti non sono in grado neppure di misurare, ma che saranno gravissime, specie in alcuni comparti come l’energia, i trasporti, la mobilità, il turismo.

Quindi, il capitale si sta indebolendo in modo sostanziale perché non produce più valore?

Questo sicuramente sta avvenendo, ma non penso sia il problema principale, e neppure “il problema”. I livelli di sovraccumulazione sono ormai così alti – in termini di merci, di macchine e di valore socialmente accumulato -, che non è detto che un “dimagrimento”, per quanto violento e prolungato, per quanto doloroso, sia veramente devastante. Abbiamo già avuto prova della grande capacità del capitalismo di riprendersi dopo le crisi di valorizzazione, anche le più gravi: non tanto attraverso la produzione aumentata delle singole merci, che pure avviene, bensì come conseguenza della spinta principale, che è quella della crescita della potenza produttiva generale, ossia della capacità dei sistemi integrati di produrre valore e di accumularne sempre di più nei sistemi stessi.

In sostanza, tanto dopo la prima quanto dopo la seconda guerra mondiale, i sistemi produttivi dei grandi paesi capitalistici furono in grado di moltiplicare, fino a decuplicarla, la loro potenza produttiva. Lo stesso è avvenuto con la rivoluzione informatica, che ha reso le capacità generali di riproduzione sociale più veloci, più funzionali, favorendo la sussunzione nel sistema integrato del lavoro socialmente accumulato anche della grandissima parte del lavoro intellettuale, sottoposto all’inesorabile forma dello scambio diseguale tipico delle relazioni sociali dell’epoca del capitalismo.

Detto in altri termini, le perdite di oggi potrebbero essere recuperate domani, attraverso una ulteriore stretta nella integrazione, funzionalizzazione e rafforzamento del sistema macchinico generale.

Forse questo avverrà con delle varianti che ora non siamo in grado di prevedere, e che potrebbero anche essere differenti tra i vari macrosistemi. Ad esempio, potrebbe essere messa in discussione la globalizzazione che abbiamo conosciuto fino ad ora. Come ha recentemente osservato Romano Prodi, potrebbe determinarsi una “globalizzazione per grandi aree regionali”, tale che in futuro non accada più che l’Italia dipenda dalla Cina per le mascherine, o che le auto tedesche non si possano produrre perché non arriva la componentistica dall’estremo oriente.

Insomma, non mi pare che la crisi di valorizzazione sia la cosa che più dovrà preoccupare i capitalisti come effetto immediato, o anche di durata media, della pandemia.

3) Per capire meglio i reali effetti della pandemia, forse bisogna affrontare il problema da un diverso punto di vista.

Abbiamo detto che una delle caratteristiche di questa fase del capitalismo, anzi la sua caratteristica principale, è la capacità che ha acquisito di mettere a valore tutto il tempo di vita delle persone, ovvero di far coincidere il tempo di vita con il tempo di lavoro; o, più esattamente, con il tempo nel quale ciascuno concorre alla riproduzione allargata dell’intero sistema produttivo e delle relazioni sociali che lo sorreggono. Così, quando diciamo che “tutto fa sistema” – apparato industriale, apparato logistico, scuola, sanità, formazione, ricerca, comunicazione, giurisdizione, sicurezza, ecc. ecc. – diciamo esattamente che milioni di individui, le cui attività sembrano essere molto distanti dalla produzione immediata di valore, sono stati in realtà sussunti pienamente nella combinazione sociale del lavoro: stanno dentro l’individuo produttivo sociale e concorrono alla riproduzione delle relazioni sociali in modo diretto.

Potrebbe dirsi anche in un altro modo: la quantità di “capitale morto” inglobato nell’immenso sistema macchinico complessivo è divenuta ormai così gigantesca che, per valorizzarsi davvero di fronte a una sempre operante “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”, ha ora bisogno di combinarsi con una altrettanto gigantesca quantità di energia umana, da estrarre da tutti gli individui disponibili, sia nella forma tradizionale del lavoro manuale, sia nella forma, resa possibile dalla rivoluzione informatica, del lavoro intellettuale. Arriva perciò ad inglobare, nel processo di riproduzione sociale, non solo il “lavoro propriamente detto”, ma tendenzialmente ogni attività umana che si possa combinare con uno degli infiniti terminali del sistema macchinico generale, di cui la rete informatica costituisce oggi l’ossatura principale. Ne consegue che nessun singolo individuo è estraneo al complesso meccanismo della riproduzione sociale, ad eccezione di determinate fasce marginali, gli esclusi, maciullati come rifiuti, residui di una marcescenza feroce.

All’interno del meccanismo di riproduzione sociale esiste una gerarchia altrettanto feroce, che vede la stragrande maggioranza degli individui svalorizzati, deprivati, ripagati con una quota minima del valore generato, mortificati nella possibilità di esprimere la gran parte delle loro potenzialità, lontani dal vivere una condizione pienamente libera ed umana. In ultima analisi: infelici. L’internità al sistema della riproduzione sociale riduce, infatti, lo spazio della libera espressione individuale. Gli individui sono soprattutto ricondotti alla condizione unidimensionale di “produttori”, con la conseguente mortificazione della creatività improduttiva, del lavoro non socialmente necessario, del tempo di vita per sé.

4) Attenzione. Non intendo una società “robotizzata”, formata da individui non pensanti e sottoposta ad un controllo poliziesco di stampo orwelliano. Si tratta, piuttosto,  di una società nella quale vi è un apparente dispositivo di garanzie liberali (libertà di esprimersi, libertà di movimento, libertà di aggregarsi, ecc.) e però i corpi hanno il limite invalicabile della catena riproduttiva, che li costringe ad una cooperazione costrittiva (benché essa si rappresenti e si definisca come volontaria) con il meccanismo sistemico, garante e fattore della loro stessa riproduzione come corpi condizionati, gerarchicamente sottomessi, individualmente e socialmente deprivati.

Si sta come un cane messo alla catena: una catena abbastanza lunga da far assaporare quale potrebbe essere la condizione di libertà senza la catena, ma che, nello stesso tempo, arrivata al limite della lunghezza, nega brutalmente la libertà assaporata.

ll punto è che il capitalismo moderno, almeno quello nelle cittadelle più avanzate, ha assunto il controllo dei corpi non nella forma autoritaria-militaresca del carcere, quanto nella forma cooperativistica-gerarchizzata della fabbrica. Nondimeno si tratta di una di una forma di controllo efficacissima, sostenuta da definizioni e valori, che potremmo per comodità chiamare “ideologia”, capaci di rappresentare la condizione data come l’unica accettabile e/o funzionante, e in ogni caso la migliore tra quelle possibili.

Ovviamente, la lunghezza della catena determina, negli incatenati, una diversa percezione degli spazi che percorrono e vedono, consentendo loro di prefigurare quale potrebbe essere la condizione di assenza della catena. E questo è un bene per i rapporti capitalistici, poiché il capitalismo moderno, per utilizzare le energie umane necessarie, ha bisogno di individui in grado di generare quantità sempre crescenti di funzioni utili, e quindi più sapienti, più flessibili, più fantasiosi, creativi ecc.; ma che pur sempre restino nel limite della catena (quindi, nella nostra metafora, nel limite di una catena abbastanza lunga). È un bene per il capitalismo la “catena lunga”; ma contemporaneamente è anche un pericolo.

Si tratta della condanna storica del capitalismo, della sua dannazione. Per riprodursi ha bisogno di individui sempre più capaci come inventiva e intelligenza assolute, sebbene meno consapevoli del sistema nel suo insieme. Ma così facendo, riproducendo così se stesso, esso riproduce in forma sempre più ampia i suoi potenziali, irriducibili nemici, che oggi sono gli essere umani nella loro stragrande maggioranza. Essi, infatti, sulla base della propria esperienza pratica e intellettuale, potrebbero comunque proiettarsi, entro una effettiva temperie storica, al di là della propria particolarità e cogliere il sistema nel suo insieme.

5) Possiamo dunque dire che, nel modello ideale di capitalismo della contemporaneità (un modello ideale, ma al quale i capitalismi reali fortemente tendono), i singoli individui, i loro singoli corpi, le loro attività hanno un ordine predefinito e sono cooperanti, e quindi controllabili, nel processo complesso della riproduzione sociale.

La pre-definizione dei ruoli costituisce l’elemento forte della coesione sociale, ovvero della garanzia che la gerarchia sociale si riprodurrà in modo “pacifico”, salvo il fatto che una quota di conflitto, più o meno esplicito, tra i diversi segmenti del sistema, o tra sistemi, è ineliminabile. Così come non è eliminabile del tutto l’imprevedibilità di fattori non controllabili, ascrivibili alla natura, all’uomo o alle due cose assieme.

Quel che conta è che negli ultimi cinquant’anni (indico questo arco temporale perché mi sembra una quota-parte significativa della fase storica) nessun conflitto e nessun imprevisto hanno arrestato o messo seriamente in crisi la direzione del processo, che anzi, a me sembra, o meglio sembrava fino ad oggi, più che mai consolidato e forse destinato a ulteriori sviluppi (robotizzazione? controllo sempre più totale sugli individui? ampliamento verso lo spazio dei luoghi dello sfruttamento della materia?).

Va da sé che ogni ulteriore sviluppo presuppone ed implica il coinvolgimento sempre più totale delle energie umane, dei singoli individui. Nella loro fisicità, ma anche della loro attività intellettuale.

Un esempio di quello che accade e potrà accadere è ben visibile in Africa, ed è l’azione che in quel continente sta svolgendo la Cina, forse oggi il più mastodontico e integrato sistema produttivo.

In alcuni paesi dell’Africa la Cina sta facendo, da diversi anni, investimenti da capogiro: costruisce strade, ferrovie, porti e aeroporti, intere città; bonifica paludi e spiana foreste. Lo fa per posizionarsi in modo vantaggioso, nella competizione mondiale a venire, rispetto agli altri grandi sistemi più o meno integrati, Stati Uniti ed Europa. Ma la conseguenza più interessante, per ciò che attiene al nostro ragionamento, è che in questo processo i cinesi hanno mobilitato letteralmente milioni di africani, strappandoli ad una economia di mera sopravvivenza ed estranea ad ogni produzione che non fosse quella minima per il sostentamento, e immettendoli dentro il circuito della gigantesca valorizzazione sistemica. Il che significa che milioni di africani non sono più isolati riproduttori di se stessi, ma sono stati resi interdipendenti, anche per la sopravvivenza, dall’insieme della riproduzione sociale.

Forse questo diminuisce nell’immediato, e parzialmente, il rischio endemico di fame e di penuria, ma sicuramente determinerà nuove gerarchie di controllo e una dispersione identitaria che porterà inevitabilmente, e in effetti sta già accadendo, a grandi sconvolgimenti nei modelli comportamentali e relazionali di quelle popolazioni, omologate progressivamente  a standard globalmente accettati circa la visione del mondo, della vita, delle relazioni umane, su ciò che è desiderabile e ciò che non lo è. Questo processo non solo impedisce a milioni di individui di sperimentare percorsi di sviluppo, di emancipazione e di crescita individuale e collettiva diversi da quelli fondati sullo sfruttamento feroce del lavoro umano e della natura, e sull’accumulazione indiscriminata di merci; ma, collocando quegli stessi individui al gradino più basso della gerarchia sociale, produrrà lo strano effetto di conquistarli totalmente alla rappresentazione ideologica di quegli standard, nel contempo escludendoli quasi totalmente dal concreto accesso ad essi.

È quanto avvenuto, in larga misura, nel Centro e Sud America. In quella parte del mondo diverse centinaia di milioni di individui vivono e lavorano in un circuito ampiamente integrato (le grandi multinazionali agro–alimentari; le grandi compagnie nordamericane, ma anche europee, dell’energia, delle materie prime, della meccanica, del tessile, ecc.). Essi aderiscono totalmente a modelli di vita e gerarchie di valori coerenti con quel sistema, ma sono sostanzialmente immersi in una povertà materiale e morale apparentemente irrisolvibile, che rende le loro singole esistenze di scarsissimo valore. Coloro che tentano di ribellarsi a questo processo (alcune popolazioni indigene, alcuni movimenti politico–sociali) vengono duramente repressi o soffocati con embarghi economici che rendono impossibile, o quasi, persino la mera sopravvivenza.

6) La disponibilità degli individui, nella loro concreta fisicità e nella loro capacità intellettiva, costituisce, dunque, la grande ricchezza del capitalismo contemporaneo. Una disponibilità sempre crescente, sia sotto il profilo meramente quantitativo (sempre più individui, in più parti del mondo, contribuiscono alla riproduzione sociale in modo organizzato ed integrato, anche se nella forma “liquida” della incessante movimentazione di capitali, merci ed uomini), sia nella profondità delle singole esistenze  (sempre più azioni umane sono “catturate” dal sistema macchinico e trasformate in un segmento utile alla riproduzione, e quindi in una quota espropriata della vita).

Si tratta di una disponibilità non del tutto pacifica (né priva di ostacoli e resistenze, come abbiamo detto). Esiste il conflitto sociale, anche se oggi sembra svolgersi in forme meno incisive che nel passato (ma su questo si dovranno fare altre e più ampie riflessioni); esiste la competizione internazionale tra i vari segmenti del sistema, competizione che può produrre devastazioni e crisi, ma che negli ultimi 50 anni ha visto prevalere la forma più moderna ed evoluta del capitalismo; esistono le grandi migrazioni, frutto della forza attrattiva delle metropoli capitaliste e difficili da governare in modo ordinato; esiste, sullo sfondo e dalle conseguenze ancora tutte da verificare, la crisi ambientale.

Esistono, poi, le vicende individuali, che possono mettere in discussione la disponibilità di un singolo individuo. Questo, ovviamente, è il tipo di ostacolo che il capitalismo, fin dalle sue origini, ha imparato a gestire con maggiore facilità, attraverso una progressiva spersonalizzazione dei singoli processi. Del resto, più sapere sociale storicamente accumulato viene inglobato nelle macchine, e più indifferente e fungibile diventa l’operatore e anonima la sua individuale quota di apporto al funzionamento della macchina. È qui evidente il paradosso della crescita dei sistemi capitalistici: da un lato, diventando il sistema delle macchine sempre più mastodontico e complesso, ha dovuto rendere i produttori in assoluto più colti, più duttili (per cui oggi un uomo di media cultura ha, in assoluto, più conoscenze di quante ne aveva Leonardo da Vinci nel ‘500); dall’altro, li ha resi assolutamente meno capaci di comprendere  l’intero processo e quindi, in senso relativo, decisamente più poveri di sapere  (un uomo di media cultura possiede del sapere accumulato oggi una quota incommensurabilmente inferiore a quella che Leonardo da Vinci possedeva del sapere accumulato alla sua epoca).

Il capitalismo dunque ha ragione di dirsi soddisfatto, perché può sottoporre senza apparente difficoltà gli esseri umani al sistema capitalistico delle relazioni sociali. Capita tuttavia che questa sottomissione si interrompa proprio nella relazione tra individuo e sistema.

Di tutte le vicende individuali che interrompono il rapporto di disponibilità del singolo verso il sistema, la malattia è decisamente l’evento più diffuso e frequente.

In verità, di fronte all’incidenza delle patologie sulla disponibilità dei singoli produttori, nei capitalismi moderni si è risposto anche con sistemi sanitari organizzati su scala nazionale e in larga misura gratuiti, controllati per lo più dalla mano pubblica. Con eccezioni rilevanti (Stati Uniti), questo sistema si è diffuso in tutti i paesi più avanzati, rappresentando uno di quei rari terreni su cui si è resa possibile una vantaggiosa mediazione tra l’esigenza del capitale di non perdere troppi individui per malattie o di non averne la disponibilità per troppo tempo, e l’esigenza degli individui di ricevere una cura, pur in assenza delle risorse individuali per affrontarne i costi. Gli oneri di questa mediazione non potevano che essere posti a carico della fiscalità generale, o, se si vuole, del “comitato d’affari della borghesia”, il quale intravide che la sanità pubblica e accessibile a tutti era cosa buona per i suoi protetti.

Che successivamente, in conformità alla sua più intima natura, il capitalismo moderno abbia lavorato, e lavori ancora, per trasformare anche la salute in una merce suscettibile di scambio profittevole, non toglie che quella mediazione che nacque, si sviluppò e si affermò nel secolo scorso, rappresenti ancora un fattore caratterizzante negli assetti dei moderni sistemi capitalistici.

Ora, se i fattori individuali di indisponibilità dei singoli non costituiscono, in sé, un elemento di crisi per il capitale (in ragione di quella spersonalizzazione di cui si diceva), può accadere che la “malattia”, da fattore tipicamente individuale, si trasformi in un accadimento collettivo, che può interessare contemporaneamente una quantità di individui tale da mettere in crisi il funzionamento ordinario dei sistemi sanitari e, con esso, i meccanismi di fungibilità tra produttori, e, quindi lo stesso controllo che il rapporto di capitale esercita sui singoli individui.

7) In un interessante intervento sulla rivista LEF, si è fatto riferimento alla epidemia di “spagnola” di inizio ‘900 come la vicenda storica più vicina a quella attuale, con la sottolineatura che l’incidenza di contagio e di mortalità allora fu di gran lunga maggiore, senza che ciò determinasse il crollo del sistema (ho un po’ schematizzato, e quindi anche banalizzato).

Il punto, a mio avviso, è che tra quel mondo e questo ci sono delle differenze sostanziali, che rendono le due vicende non comparabili.

O meglio, alcune analogie ci sono, e sono rappresentate dal fatto che durante quella vicenda furono sperimentate alcune pratiche sanitarie di massa (l’isolamento dei contagiati, le mascherine di protezione individuale), e dal fatto che sull’evoluzione della pandemia i medici e i ricercatori di tutto il mondo, almeno della parte di mondo più evoluta, poterono scambiarsi dati e notizie in tempo quasi reale. Insomma, il livello raggiunto di organizzazione sociale e di tecnologia consentiva di affrontare la pandemia come un fenomeno globale, in un modo che non si era mai verificato prima. Sicuramente questo approccio fu favorito dal fatto che la grande guerra, che nel 1918 era agli sgoccioli, aveva potenziato la capacità degli Stati di organizzare e disciplinare grandi masse di individui e di costituire sistemi di comunicazione e di decisione più rapidi e agevoli; così come la mobilitazione e la movimentazione degli eserciti nei vari fronti aveva allargato il diffondersi del contagio.

Tuttavia, le analogie finiscono qua.

Il mondo, nel 1918, vedeva ancora grandissime masse di individui estranei ai processi di valorizzazione, o collocate ai margini di essi. E non parliamo solo delle enormi masse di contadini poveri in Asia, in Sud America, o delle popolazioni semiselvatiche dell’Africa, ma anche delle masse contadine e dei sottoproletari delle periferie urbane nei paesi europei e nel Nord America. Nel 1913 in Italia il comparto industriale contribuiva al PIL solo per il 25%, il settore dei servizi all’incirca per un 25-30%, mentre il settore agricolo contribuiva per una percentuale che secondo le varie stime oscillava tra il 45 e il 50%. Per dare un’idea delle proporzioni, nel 2010 il comparto agricolo contribuiva alla formazione del PIL italiano solo per un 4%. Nel resto dei paesi europei i dati non differivano di molto.

Se consideriamo la dimensione globale, nel 1920 la popolazione della Terra ammontava all’incirca a 1.800.000.000 individui, di cui almeno i ¾ viventi in zone rurali, isolate, in condizione di grande arretratezza, estranei ai circuiti della produzione e del consumo di merci di provenienza industriale, o comunque ai margini di tali circuiti.

Pur senza sopravvalutare la circostanza che l’epidemia spagnola, verificatasi a ridosso della grande guerra, incontrò un mondo nel quale l’idea della morte era avvertita come consuetudine molto più che nel mondo contemporaneo, il maggior numero di morti (certamente notevole, anche se le stime oscillano e non di poco, tra i 20 milioni e i 50 milioni), si verificò soprattutto in zone sottosviluppate, e tra ceti svantaggiati. 

Recenti studi hanno calcolato che la maggior parte delle vittime, sia in termini assoluti che in termini percentuali sulla popolazione, si verificò in India, per la quale alcuni parlano addirittura di 17 milioni di decessi. Altri studi hanno accertato la notevole maggiore incidenza di contagi e di decessi tra gli analfabeti e i poveri. L’Italia, tra i paesi europei, fu tra i più colpiti (anche allora!!). Si stimano circa 600.000 decessi, la maggior parte dei quali verificatesi nelle regioni meridionali (a parte il caso della Valle d’Aosta, che fu quasi decimata).

Ora, che milioni di poveri contadini indiani, cinesi o indonesiani morissero di polmonite, o che la popolazione di molte isole del Pacifico diminuisse in 18 mesi del 60 – 70%, oppure che molti villaggi indigeni dell’Alaska addirittura scomparissero, o, ancora, che tra i neri delle periferie urbane in Nord America si registrasse il tasso di decessi più elevato rispetto ai contagi, o che i due terzi dei morti in Italia si registrassero nelle regioni meridionali più povere (Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna), rilevava certo sul piano statistico–numerico; ma l’incidenza di quei dati sull’andamento economico complessivo, ovvero sull’andamento dei processi di accumulazione e valorizzazione, era, nel complesso, piuttosto modesta.

8) Ovviamente l’epidemia di Spagnola non fu una vicenda indolore neppure sul piano economico. Tra le conseguenze più evidenti vi furono la temporanea carenza di mano d’opera in alcuni comparti industriali nei paesi più sviluppati e l’abbassamento, per alcuni anni, dell’età media dell’aspettativa di vita, anche nei paesi più progrediti, e ciò in conseguenza del fatto che quella pandemia, per ragioni che sono state ampiamente studiate, colpiva prevalentemente i soggetti di sesso maschile adulti, fra i 30 e i 50 anni. Altra conseguenza fu la sperimentazione in grande dimensione di sistemi di isolamento e distanziamento sociale.

Quello che la pandemia di spagnola non fece, e non poteva fare, era mettere in crisi il sistema generale della riproduzione sociale. Non poteva, per il semplice fatto che la maggior parte dei contagiati e dei morti era già fuori dal sistema, viveva e lavorava, o più precisamente sopravviveva e faticava, solo per riprodurre se stessa, il più delle volte in forme arcaiche, in economie chiuse e in territori geograficamente e socialmente lontani dai luoghi nei quali il capitalismo stava costruendo la sua onnivora modernità. Non avendo ancora acquisito la disponibilità (tendenziale) di tutti corpi e di tutte le azioni dentro il ciclo della sua riproduzione, il capitalismo restò sostanzialmente indifferente a quell’immane carneficina

Sul punto credo sia interessante un articolo apparso sul Fatto Quotidiano on line del 9 marzo, a firma di Romaric Goden, giornalista francese, esperto di macroeconomia.

Ne cito un passo che a me sembra in sintonia con il ragionamento che sto provando a fare:

 “Nel 1918-1919, l’influenza spagnola poteva rappresentare, nel caos generale, un dettaglio aneddotico. In un’economia in piena riconversione, soggetta a un’intensa lotta sociale, lo stop di certe attività per alcune settimane non aveva avuto conseguenze a lungo termine. In altre parole, l’economia all’epoca aveva sfide più serie da gestire della pandemia. C’erano inoltre anche sacche di crescita più importanti, poiché la seconda rivoluzione industriale era ancora in corso. La situazione non è così oggi. Innanzitutto, la struttura dell’economia è diversa. Le catene di valore industriale sono molto più internazionali e, per motivi di produttività, sono gestite con metodi just in time”.

Non è il mio linguaggio, e neppure sono esattamente i miei concetti; ma, con approssimazione, mi sentirei di dire che l’internazionalizzazione delle catene di valore industriale ed il metodo just in time rappresentano, né più né meno, che l’estensione del rapporto di capitale su scala planetaria e la disponibilità estorta ad libitum ai produttori affinché partecipino alla “catena di valore”.

Questi elementi fanno la differenza dell’oggi con l’ieri.

9) Altri studiosi, alcuni dei quali anche vicini alla cultura di LEF, hanno utilizzato, per indicare il carattere “globale” del capitalismo contemporaneo, la definizione che diede fin dal 1985 l’economista Michael Porter, ripresa, più recentemente, in Italia dagli economisti Borghi, Dorigatti e Greco, ovvero CGV (Catene Globali del Valore, global value chain in inglese).

Le GVC, secondo questi studiosi, hanno subito dalla pandemia un colpo le cui conseguenze non sono allo stato prevedibili, e potrebbero essere veramente catastrofiche. I loro studi oscillano tra previsioni molto negative sulla globalizzazione come si è venuta delineando negli ultimi decenni, a letture più prudenti, che si limitano a prevedere un calo del prodotto globale tra il 2 e il 5%, e una durata del ciclo critico dipendente dalla pandemia oscillante tra i 12 e i 24 mesi, con maggiore incidenza, ovviamente, nei paesi meno sviluppati. A sua volta, il Fondo Monetario Internazionale prevede per il 2020 una recessione mondiale intorno al 3%. In ogni caso, per quasi tutti gli osservatori le conseguenze economiche negative sull’economia mondiale saranno superiori a quelle causate dalla crisi del 1929.

Ciò che a me pare insufficiente di tutti questi approcci è il fatto che essi considerano, quasi esclusivamente, la dimensione “quantitativa”, o meglio, geo–economica della crisi conseguente alla pandemia. In sostanza, dicono tutti più o meno, la pandemia mette in crisi le CGV nella loro estensione territoriale, e quindi mette in crisi la globalizzazione nella sua forma attuale.

Questo è indiscutibilmente vero, i dati sull’interdipendenza industriale, quanto meno nei settori a maggior valore aggiunto (elettronica, automobile e mezzi di trasporto, tessile) parlano chiaro: se il 27% dell’elettronica globale e il 13% del settore automobilistico vengono prodotti in Cina, è del tutto ovvio che l’interruzione di questa catena provoca conseguenze enormi. Altro che battito di ali della farfalla!

Ma non è solo questo, e forse neppure principalmente questo. Se è vero che i teorici del ritorno ad una sorta di nazionalismo industriale sono pochi, mentre i più ritengono questa una non-soluzione, non è escluso che nel medio periodo alcuni settori potrebbero conoscere una ricollocazione in ambiti globali per aree geografiche, secondo la già citata previsione di Romano Prodi.

Ciò che invece mi sembra veramente irrisolvibile, nel breve e nel medio periodo, è la crepa che si è creata nella capacità di questo sistema economico di controllare, disporre e preordinare l’esistenza delle persone.

È come se d’improvviso l’immenso potere dispositivo del capitalismo dei nostri tempi avesse scoperto di avere un imprevisto concorrente, capace di agire sui singoli individui con una forza e una estensione di pari e forse maggiore intensità. In più con una caratteristica peculiare, e cioè che l’oggetto del suo potere, del potere concorrente, è immediatamente la vita, e non un altro segmento di valore o di profitto.

10) Il capitalismo moderno ha come fine quello di produrre, o sarebbe meglio dire, di sprecare valore. E per questo fine disciplina, coinvolge, e sacrifica gli individui, oltre che la natura. La pandemia ha coinvolto gli individui per un altro fine, quello di annientare la vita stessa, generando, per contro, una generale esigenza di riprodurre e proteggere la vita. Nella sua materialità immediata, ma anche nella sua immaterialità (affetti, emozioni, sentimenti, idee, creatività…).

Per alcuni mesi, una parte molto consistente di umanità è fuoriuscita dal meccanismo di riproduzione sociale come produzione/spreco di valore, per essere costretta a riprodurre e proteggere semplicemente la vita.

Molti dicono, a cominciare dal Papa per finire a schiere di economisti, che bisogna ripensare l’economia, e che la pandemia ci avrebbe insegnato che l’economia come l’avevamo costruita non va più bene. Io non so, e credo che nessuno sappia, se effettivamente sarà impossibile tornare a come eravamo prima della pandemia.

Di certo, ci sono tre cose che la pandemia ha lasciato intravedere e che mi spingono a riflettere:

  • Questa vicenda ha reso evidente che la riproduzione e la protezione della vita è un’esigenza universale che accomuna tutti gli uomini, mentre la produzione/spreco di valori economici vede gli esseri umani separarsi in ragione degli interessi diversi, tra chi il valore lo accumula sottraendolo ad altri e chi lo produce senza poterne godere;
  • Ha reso inoltre evidente che la vita da riprodurre e proteggere è più ricca delle sue forme esteriori, basate sull’accumulo indeterminato di merci e su rapporti misurati dal valore economico;
  • Ha sancito, infine, che anche nell’ipotesi di una ripresa economica nelle forme tradizionali, dovrà essere inevitabilmente considerata la variabile riproduzione e protezione della vita, con conseguenze tutte da verificare.

Del resto, è diffusa, tra gli esperti, l’idea che questa possa essere solo la prima di altre pandemie che potrebbero svilupparsi in futuro, a causa di microrganismi oggi sconosciuti. E sullo sfondo, come un’ombra minacciosa, si intravede una crisi ambientale che potrebbe favorire, tra gli altri immani disastri, anche la nascita e lo sviluppo di microrganismi letali.

Insomma, mi pare di poter affermare che questa pandemia, oltre a mettere in evidenza tutte le fragilità della globalizzazione, abbia messo a nudo proprio la difficoltà degli esseri umani a convivere col capitalismo moderno, con la sua aspirazione a controllare, disciplinare e coinvolgere tutti gli individui, nella loro completezza fisico-biologica e immateriale–spirituale. E, di contro, ha posto in primo piano l’esigenza di riprodurre e proteggere la vita nella sua pienezza.

Si tratta di una contraddizione potenzialmente esplosiva, che potrebbe crescere in fretta e diventare non-conciliabile. E sarebbe, stavolta, non l’inconciliabilità intravista da pochi eletti in un tempo futuro, di là da venire, quanto piuttosto una condizione che ciascuno di noi potrebbe vivere sulla propria pelle. Nel tempo misurabile della sua stessa esistenza terrena.

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1 commento

  1. Silvano Bartaletti dice:

    Il Capitale inteso come accumulo di plus valore da reimpiegare nel ciclo produttivo, penso resti una necessità. Quello che mi auguro avvenga è la sua gestione da privata a democratica.

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