Parteciperemo come LEF – rivista on-line alla Assise meridionale proposta dal “Laboratorio per il Sud” per la fine di giugno. Proprio in riferimento alla crisi spaventosa che l’epidemia sta aprendo sul piano sociale ed economico, riteniamo più che mai centrale una riattualizzazione analitica e programmatica della “Questione Meridionale”.
Ma bisognerà ragionare in modo nuovo. Diversamente da come la vedeva il movimento operaio novecentesco, le persistenti difficoltà del Sud dell’Italia – evidentissime sul piano del reddito delle persone, della produzione di ricchezza, della cura degli spazi e dell’efficienza dei servizi e delle infrastrutture -, non possono essere lette col semplice paradigma della “arretratezza”, come si trattasse di un puro retaggio storico dovuto alla spoliazione sistematica delle risorse del Sud a beneficio dei comparti industriali del Nord.
Ovviamente, tale spoliazione c’è stata. E ancora oggi continua in vari modi. Continua, per esempio, coi trasferimenti statali sulla base della cosiddetta “spesa storica” delle Regioni: chi ha speso di meno per l’istruzione, la sanità e la cura dei beni comuni rimane inchiodato, anno dopo anno, alle stesse cifre di sempre. Diventa, così, ininfluente che il Sud abbia speso di meno soprattutto perché ha avuto meno risorse a disposizione, perché si è trovato nel “posto sbagliato” quando la storia concreta del nostro Paese ha determinato, da un lato, i poli di sviluppo e, dall’altro, i poli di declino.
E se poi una timidissima legge (L. n. 18/2017) corregge parzialmente il principio della “spesa storica” ricalcolando la destinazione territoriale degli investimenti statali (ma non quelli delle società a partecipazione pubblica) sulla base del numero degli abitanti (nel Sud vive il 34% della popolazione italiana), essa rimarrà comunque lettera morta. Ad oggi, manco a dirlo, si aspettano ancora i decreti attuativi…
E succede, in aggiunta, che già si pensa di tornare indietro e rimettere tutto – ma proprio tutto: investimenti diretti dello Stato e Fondi strutturali europei, che sono destinati per principio alle aree deboli, e cioè al Sud, nella misura dell’80% – nell’unico calderone del contrasto agli effetti del Covid 19. Così recita, infatti, il Documento di Economia e Finanza appena approvato dal Parlamento. E chiunque capisce come tale dispositivo riaprirà, se non sarà corretto a settembre dalla “Nota aggiuntiva al DEF, di nuovo alla “spesa storica”; e anzi peggio, considerando i fondi europei.
Dunque: quando diciamo che bisogna ragionare in modo nuovo, non intendiamo sminuire affatto il contenzioso generale che le popolazioni del Sud dell’Italia hanno con le modalità concrete di funzionamento del capitalismo italiano e dello Stato. Intendiamo, invece, l’immissione delle specifiche “ragioni del Sud” nello scenario complessivo degli attuali rapporti sociali capitalistici.
Il nodo centrale è rappresentato dal fatto che il rapporto di capitale dell’epoca nostra arriva a costituirsi solo all’interno di una cogente e pervasiva dinamica di “totalizzazione”: nel senso che la valorizzazione degli investimenti capitalistici e la stessa crescita della ricchezza accumulata derivano, progressivamente, non più dai tempi immediati di lavoro ma direttamente dalla mobilitazione produttiva del corpo sociale, dal general intellect, dall’individuo produttivo sociale. Il capitale come sistema complessivo non è, perciò, la somma dei segmenti definiti che lo compongono, ma si manifesta propriamente solo a scala generale, come “totalità dispiegata”. È l’insieme che regge i singoli segmenti, e non il contrario.
Orbene, in un siffatto, inedito contesto storico, il Sud non può essere visto come “corpo a sé”, bensì come elemento organico del “tutto”, come elemento indissolubilmente costitutivo del sistema-paese di cui fa parte. Ma – è questo il punto decisivo – il Sud dell’Italia fa parte della totalità capitalistica italiana proprio con la sua caratterizzazione specifica: è il luogo elettivo dei processi di marcescenza, altrettanto indispensabili, nella fase della “totalizzazione del rapporto sociale di capitale”, dei processi di crescita.
Detto in una battuta, il capitalismo di oggi è giunto a sviluppare pienamente, proprio nel Sud, la contraddizione fra le relazioni produttive che costruisce e la concreta qualità della vita degli esseri umani. In particolare, più ingigantisce come sistema e più una quota parte degli uomini e delle donne diventano non-integrabili dentro le coordinate del sistema medesimo. Diventano una pura “eccedenza”, sono “in più”.
L’altra faccia dello sviluppo si rivela, perciò, come spreco assoluto degli esseri umani: non lo “spreco funzionale” di ciò che nell’Ottocento e nel Novecento abbiamo inteso come “esercito industriale di riserva”; bensì proprio lo spreco assoluto. Milioni di donne e uomini debbono semplicemente marcire.
A scala planetaria sono avviate a questo drammatico destino vastissime zone del Sud del mondo e centinaia di milioni di persone. All’interno dei singoli sistemi-paese, anche quelli più avanzati, ad aree di grande concentrazione della potenza produttiva corrispondono aree dove l’economia si configura soprattutto come lavorazione di scarti e di rifiuto. “Rifiuto” come cose da buttare, e “rifiuto” come persone da cancellare, o contenere comunque in uno stato “di minorità”.
Il nostro Sud si qualifica così, per il sistema-Italia, come luogo d’elezione privilegiata del degrado funzionale alla valorizzazione capitalistica. Anche per i retaggi irrisolti del passato, per le dinamiche disgregatrici già consolidate dalla storia, esso concretizza fattivamente, più di altre parti d’Italia, gli indispensabili processi capitalistici di marcescenza e spreco assoluto degli esseri umani.
Lottare contro il destino di marcescenza di milioni di persone diventa perciò la parola d’ordine necessaria, da agire in tutta Italia e non solo nel nostro Sud.
Crediamo non sfugga a nessuno come il contenzioso su tale aspetto riepiloghi l’insieme delle criticità che costruisce incessantemente il capitalismo: dalla precarietà dell’esistenza alla distruzione dell’integrità della natura, dalla inefficienza dei servizi di cura al decadimento degli assetti urbani. È un contenzioso che mette obiettivamente a confronto i diritti di cittadinanza umana e le logiche dello sviluppo capitalistico.
In tal modo la vicenda del Sud ci parla di un conflitto propriamente moderno, che ricomprende in sé tutti i conflitti storici e tutte le contraddizioni prodotte dal capitalismo nel corso del suo cammino. È il conflitto tra capitale e vita quello che davvero emerge nelle latitudini meridionali del nostro paese.
In questo senso il Sud diventa, può diventare, esemplificativo del cuore medesimo di una più complessiva proposta di trasformazione degli assetti sociali. Con l’aggiunta, tuttavia, di un elemento decisivo, troppo a lungo sottaciuto anche da parte della sinistra: il degrado, la marcescenza e lo spreco assoluto che segnano il Sud sono resi possibili anche per i guasti incessantemente prodotti da corposissimi elementi culturali oscurantisti, largamente presenti nelle relazioni civili del nostro Mezzogiorno.
Si può dare una spiegazione di tipo sociologico, si può dare una spiegazione di tipo storico. Si può parlare, ad esempio, del peso enorme, nella storia del Sud, delle cinture metropolitane, da Palermo a Napoli a Bari, col connesso gigantismo dei vecchi “strati plebei” e del più moderno sottoproletariato rispetto alle campagne; così come si può dare particolare importanza alle troppe dominazioni straniere succedutesi nel tempo, compresa la piemontesizzazione ottocentesca.
Ma sia quel che sia, questo nostro Sud si presenta sfregiato certamente dalla logica generale del capitalismo, che costruisce, accanto ai poli della concentrazione produttiva, i poli della marcescenza; e però è sfregiato anche dal peso regressivo del senso comune solidificatosi nel tempo e largamente permeato di individualismo, nonché dall’esaltazione a-critica del proprio “particolarismo”, che alimenta ulteriormente la disgregazione sociale e, non a caso, viene sapientemente coltivato e promosso dalle classi privilegiate meridionali con le ideologie, obiettivamente conservatrici, della “napoletanità”, della “sicilianità”, della “calabresità”, eccetera.
Quando perciò diciamo che dobbiamo assumere come centrale la questione meridionale nei suoi nuovi, inediti termini, pensiamo a una battaglia non tra il Sud e Roma o Milano, ma a una battaglia chiaramente classista, tra il basso e l’alto della società, inserita dentro una dinamica complessiva, a scala nazionale, europea e mondiale; e pensiamo, nello stesso tempo, a una offensiva che si dispieghi anzitutto dentro i territori meridionali, divenendo conflitto sui diritti di piena cittadinanza umana, ma anche scontro per un’altra cultura contro tutte le barriere geografiche e tutti gli steccati storici, compresi quelli che si coltivano, spesso inconsapevolmente, per forza d’inerzia.
Sono questi i contenuti che vorremmo portare all’Assise di giugno e che vorremmo trovassero spazio nel documento che opportunamente quella Assise si propone di varare: una “Carta dei diritti del Sud, per il Sud e per l’Italia”.