Riflessioni (del 26 aprile) sulla Festa della Liberazione in tempo di Covid-19

È stato sostenuto da più parti, anche in alcuni articoli usciti su questa rivista, che bisognerebbe dismettere il linguaggio “guerresco” utilizzato spesso a proposito della pandemia di Covid-19. Espressioni come “guerra al virus” o come “medici in trincea” sono fuorvianti: il virus in sé non è un nemico, né la situazione che stiamo vivendo può esser paragonata ad una guerra. Si tratta di una precisazione assolutamente necessaria. A maggior ragione, parlare di “resistenza” alla pandemia richiamando esplicitamente la Resistenza al nazifascismo, oppure parlare di “liberazione” in riferimento alla fine del lockdown, appare francamente fuori luogo. Il 25 aprile appena trascorso non ha rappresentato una sorta di celebrazione della Resistenza al Covid-19. Tuttavia, è stata una giornata di memoria della Resistenza al tempo del Covid-19, e questo non possiamo ignorarlo.

A causa delle norme sul distanziamento sociale, infatti, non è stata possibile alcuna manifestazione pubblica. Si è finito così col cantare “Bella Ciao” dai balconi; hanno proliferato le dirette Facebook; vi sono stati post e commemorazioni di vario tipo, tutto rigorosamente online. L’Evento si è consumato per intero nella nuova dimensione che stiamo vivendo, ovattata e spasmodica al tempo stesso, nella quale ogni circostanza esterna va commentata, semi-analizzata e subito postata dentro la solitudine rumorosa dell’isolamento al tempo dei social. Non che prima della pandemia questa dimensione ci fosse completamente sconosciuta: è da tempo che si assiste alla trasformazione della partecipazione politica vis à vis in una sorta di “militanza online”. Il distanziamento sociale rende solo più evidente ciò che abbiamo già sotto gli occhi.

E, nel caso del 25 aprile, non credo di affermare alcunché di provocatorio se sottolineo il carattere di ritualità un po’ stanca che ha assunto in tempi recenti la Festa della Liberazione. Sono passati in fondo più di settant’anni da quegli eventi, e le voci dei partigiani si sono via via affievolite fino a spegnersi quasi del tutto. Inoltre, questa festa, che molti vogliono a tutti i costi tingere di retorica tricolore, resta una commemorazione intrinsecamente “divisiva”: il 25 aprile 1945 il CNLAI proclamò l’insurrezione partigiana nelle principali città del Nord Italia contro fascisti e nazisti, ed è perciò un’insurrezione “di parte” che si è scelto di commemorare. Inutile pensare che gente come Feltri, Salvini o Meloni possano essere d’accordo: la loro storia non si colloca nello stesso solco dei partigiani (né i partigiani caduti si sarebbero augurati il contrario, credo). Al tempo stesso, la maggior parte degli apparati dello Stato ripete la stessa omelia standardizzata in occasione del 25 aprile così come in occasione del 2 giugno, tenendo il medesimo appello all’unità e alla solidarietà nazionale mentre svolazzano in cielo le frecce tricolori – a ben pensarci, quello delle frecce potrebbe essere l’unico rito a conservarsi immutato quest’anno. Dalla Liberazione alla Repubblica il passo è breve, direbbe qualcuno, così come, in linea teorica, l’antifascismo è un patrimonio democratico di tutti e non di una “parte”. Ma, a conti fatti, il 25 aprile è sempre stato, nelle piazze ancor più che nei livellatori discorsi ufficiali, un rito di sinistra – da quella rassicurante dei sindacati e quella “antagonista” dell’antifascismo militante. Un rito scandito da una sorta di canovaccio ufficiale, fatto di critiche stomachevoli alla scadenza in sé e difese d’ufficio, attacchi e contrattacchi, retorica e ribalta. In tal senso, la corsa al commento social e alla celebrazione da quarantena mi pare confermare, con l’evidenza dell’eccezione, questa ritualità codificata.

Non a caso vi sono anche quelli che protestano contro una presunta limitazione della libertà “partigiana” di manifestare e che provano a manifestare lo stesso, in spregio al distanziamento sociale, orfani evidentemente di una ritualità che non riescono a dismettere neppure per qualche mese. Condivido a tal proposito un interessante articolo di Davide Grasso pubblicato sulla rivista on-line minimaetmoralia.it che fa giustizia della miopia di queste posizioni, ricordando tra l’altro le misure sul distanziamento sociale adottate dalla Confederazione democratica del Rojava in una parte di mondo dove la parola “resistenza” è ancora qualcosa di tangibile. E sempre Grasso ricorda come l’obbligo dell’isolamento – aggiungerei “produttivo”, per distinguerlo dall’isolamento spasmodico ricordato in precedenza – rappresenti una condizione che permette di ricongiungersi idealmente, seppure in un tempo molto meno tragico del loro, all’isolamento cui tanti partigiani furono costretti dalle circostanze stesse della lotta.

Arrivo dunque alla conclusione di questa breve riflessione. Lungi dal voler derubricare il 25 aprile a una ricorrenza come le altre, credo sia nostro dovere salvaguardarla dalla ritualità statica cui accennavo. Proprio perché l’epopea partigiana, iniziata fin dalla guerra di Spagna del ’36-’39, è stata una delle pagine più significative e fondative della nostra storia recente (non soltanto italiana), non può e non deve trasformarsi nell’ennesimo evento social che dura il tempo di una storia su Instagram. Proprio perché è una questione “di parte” che ci riguarda personalmente (ci sono nonni e bisnonni dentro quelle storie) e politicamente (il fascismo è ancora “incistato” nelle nostre società, come diceva Primo Levi), non possiamo renderla evanescente e impalpabile. Se ritualità e condivisione sono insite nel termine festum, la Liberazione rappresenta una festa di lunga durata, da praticare attraverso un costante esercizio di costruzione e ricostruzione della nostra memoria. È questo il vero rito condiviso. Solo così potremo “riattivare” le domande insite in quella storia: perché decine di migliaia di esseri umani scelsero di dire “no”, seppure in forme diverse, di fronte alla barbarie trionfante? In quali parti del mondo ciò avviene ancora, anche se nel nostro silenzio o nel nostro disinteresse? Qual è la lezione di quei “piccoli maestri” in rivolta, tacita o eclatante che fosse? Quale era la loro idea di futuro? Qual è la nostra?

Tornare alla Liberazione significa restare su queste domande, anche se siamo isolati, anche se è il 26 aprile, o il 27 o il 28… Perché, come recita un vecchio adagio, se è successo una volta può accadere ancora. Ma questo non vale solo per la barbarie. Vale anche per la lotta contro la barbarie.

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