Per l’uomo in rivolta. Contro l’umanesimo dell’uomo rassegnato

Una risposta a “Critica del riduttivismo”

Leggendo la chiusa della Critica del riduttivismo pubblicata su LEF, mi è venuto da pensare che forse un po’ di sano pessimismo in più porterebbe a conclusioni meno catastrofiche. Quello che Rino Malinconico chiama “ottimismo” – ovvero, alla fine della giostra, la speranza di non estinguerci – mi pare infatti viziato dal rimpallo tra una visione abnorme dei problemi che abbiamo davanti e la conseguente necessità di costruire risposte che abbiano effettivo spessore, con la conseguenza di approdare a soluzioni non solo poco praticabili, ma anche meno radicali di quanto auspicato. Mi spiego meglio, passando in rassegna i punti del ragionamento.

Anzitutto Rino critica la posizione di coloro che attribuiscono a questa crisi un carattere esclusivamente sanitario, accusandoli di tralasciare il profondo impatto esistenziale del “distanziamento sociale” attuato in gran parte del mondo. A questa critica si collega la tesi sul principale portato antropologico di questa epidemia: a differenza di altre crisi sanitarie del passato più o meno recente, il Covid-19 mette gli esseri umani di fronte alla fragilità della propria condizione, ricchi o poveri che siano.

Sono innanzitutto i paragoni con le altre epidemie a lasciarmi perplesso. Per quanto ne so, l’ebola è una malattia con un tasso altissimo di letalità, ed è essenzialmente questo a renderla poco “adatta” a diventare una pandemia globale: i focolai africani sono abbastanza circoscritti perché la malattia, essendo profondamente invalidante fin dai primi sintomi, non permette grandi spostamenti. La sua contagiosità resta comunque elevatissima, tanto che i medici che hanno avuto a che fare con l’ebola sono più preparati alle misure di sicurezza da adottare anche con i pazienti di Covid-19, ma è essa stessa a “bloccare”, per così dire, gli spostamenti del virus. Non sono soltanto le condizioni di arretratezza a “circoscrivere” l’ebola, dunque, ma la sua stessa natura epidemica. L’Aids, al contempo, è stata fin dall’inizio stigmatizzata come una malattia legata ai comportamenti (ad ammalarsi, dicevano le prime cronache, erano i tossici che si scambiavano siringhe e gli omosessuali che avevano rapporti non protetti), ma si è rivelata ben presto, in Africa e in Asia soprattutto, una pandemia terribile e di lunga durata. La trasmissione è diversa: non prevede alcun distanziamento sociale, ma l’Aids come pandemia ha segnato sicuramente la fine del secolo scorso in larga parte del mondo.

Veniamo infine alla “spagnola”, che è sicuramente la più simile al Covid-19: si trasmette col contatto aereo e sviluppa una polmonite, per dirla da non esperti quale siamo. Con una specificità fondamentale: la “spagnola” colpiva soprattutto nella fascia d’età tra i venti e i quarant’anni. Mi ha colpito, a questo proposito, la riflessione di uno dei partecipanti al webinar sull’epidemia organizzato nei giorni scorsi da Sinistra Italiana: diceva che, pur insegnando storia contemporanea all’università, non aveva mai dedicato un corso, o anche delle lezioni specifiche, alla “spagnola”. Nessuno, infatti, pare davvero ricordarsene, e la si “rispolvera” oggi soltanto come confronto possibile; nelle analisi sulla crisi degli anni Venti-Trenta quasi mai si nomina la “spagnola”, ma si fa ampio riferimento alla guerra, alla crisi economica, agli scontri politici etc. Eppure, la dimensione di quella pandemia è stata globale: decine di milioni di contagiati e milioni di morti; le persone usavano mascherine ante-litteram; i paesini arroccati chiudevano i contatti col mondo esterno per tener fuori il virus. Eppure, ripeto, nessuno pare ricordarsene, neppure gli addetti ai lavori. Mi chiedo, ad esempio, se coloro che hanno combattuto nelle trincee della Prima guerra mondiale ne abbiano mai parlato, oppure se parlavano piuttosto della guerra e dei reticolati.

L’esempio della “spagnola” mi pare significativo, e permette forse di comprendere meglio la differenza con l’oggi. Per dirla con una battuta, agli uomini e alle donne del 1920 non serviva una pandemia per ricordarsi di essere fragili: la loro quotidianità era stata già ampiamente attraversata dalla guerra e dal suo orrore. “Come una creatura”, scriveva Ungaretti, e parlava della fragilità del soldato. L’Occidente viene da più di settant’anni di pace interna, condizione mai sperimentata prima: tanti di noi non hanno mai conosciuto la guerra. Non era mai successo che la guerra, qui da noi, saltasse più di due generazioni. Al tempo stesso, l’Occidente ha vissuto un boom economico senza precedenti: è dagli anni Sessanta in poi che le economie occidentali crescono e che i consumi crescono come mai prima (passare dalla televisione in bianco e nero con due canali alla televisione al plasma con una banca dati sterminata è stato un cambiamento inimmaginabile fino a pochi anni prima). Certo, ci sono state delle crisi, negli anni Settanta e poi nel primo decennio di questo secolo, ma erano fondamentalmente scontri di egemonia (petrolifera, finanziaria) per determinare un avvicendamento di posizioni nel consesso di quelli che stanno comunque “sopra”. Hanno creato disoccupazione, depressione e sconforto esistenziale; hanno ridefinito le città in periferie grigie e monocolori con un centro “gentrificato”; ma, in fondo, questi settant’anni ci hanno abituati a un tenore di vita mai sperimentato prima. Non a caso, il vero elemento perturbante è stato il terrorismo (quello degli anni Settanta e quello islamico degli ultimi decenni), che sembrava distruggere la filigrana soddisfatta delle vite occidentali con una radicalità incomprensibile ai più (nel caso delle BR come nel caso dell’Isis).

Tutto questo per dire che ci scopriamo fragili proprio perché ci siamo “immunizzati” troppo a lungo. È il paradosso dell’immunizzazione: non abbiamo più “difese immunitarie” perché abbiamo reso troppo “immune” tutto ciò che è attorno a noi; non siamo ridiventati fragili in senso assoluto, ma rispetto al mondo che abbiamo costruito, perché basta introdurre un solo, piccolo virus in un ambiente asettico per renderlo mortalmente pericoloso. Siamo diventati fragili, e questa pandemia ce lo fa comprendere; al tempo stesso, la restante parte del mondo che abbiamo devastato potrebbe rivelarsi, come già succede con le traversate del Mediterraneo, molto meno fragile di noi.

Vengo allora al punto finale, che vuole delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo in contrapposizione alle chiusure identitarie e nazionalistiche, criticando chi propone interventi di “corto respiro” e semplici aggiustamenti dello status quo. Non sono molto d’accordo e provo a spiegarne le ragioni. Questa “crisi”, come ogni crisi, è un momento rivelatore, nel senso che rende visibile ciò che è. Anzi, il carattere sanitario permette di comprendere meglio il suo ruolo di “reagente”, il suo essere una sorta di elemento neutrale che rende manifesta la realtà delle cose. In primo luogo, ci mostra la differenza “antropologica” che i settant’anni di cui parlavo hanno determinato: gli occidentali soffrono a rinunciare al jogging e quindi vogliono uscire di casa per questo motivo; in Africa bisogna uscire di casa e andare cercare dell’acqua per mantenersi in vita un altro giorno. Sto ovviamente estremizzando, ma non mi pare di essere così lontano dal vero. Basta davvero poco a mettere in crisi il nostro mondo “asettico”. Non voglio assolutamente ridimensionare la pandemia in sé, il tasso di mortalità comunque elevato rispetto ad alcune fasce d’età, la contagiosità e l’adattabilità di questo virus. Si inserisce certamente nel tempo della zoonosi di cui parla Malinconico, che delineerà un futuro nel quale, probabilmente, la mascherina non sarà un orpello temporaneo. Bisognerebbe tuttavia comprendere meglio se è davvero il disequilibrio che abbiamo introdotto nel pianeta a ritorcersi contro di noi attraverso malattie animali acquisite, e in che misura, ma questa è una riflessione che potrà dispiegarsi soltanto nel lungo periodo. Nel breve periodo, invece, possiamo riflettere su altre cose, molto più circoscritte. Ad esempio, sul “modello Lombardia”, fatto di grandi potentati economici che dettano legge e con la Lega (più in generale il centrodestra italiano) che svela finalmente il suo volto: asservita alla Confindustria e a Comunione e Liberazione, ha determinato in alcuni decenni di governo regionale un sistema sanitario sbilanciato sul privato e sulle grandi strutture al posto della medicina “di prossimità”. Hanno ripetuto per anni la retorica del “prima i lombardi” e poi del “prima gli italiani”, e invece adesso, dei lombardi che muoiono a migliaia nelle Rsa, non gliene frega nulla, basta che tutto riparta come prima. Ecco quindi l’altra evidenza che la pandemia rende visibile. Spesso, chi il potere non ce l’ha tende a rivestire di idealità il potere stesso, e cioè a dimenticare la regola fondamentale del suo funzionamento, che questa crisi rende appunto manifesta: il potere tende sempre a conservare se stesso; è “entropico”. E il potere politico-economico lo sta dimostrando, in questa fase, a tutti i livelli: regionale, nazionale, internazionale. Il potere fugge da ogni cambiamento che possa metterlo in discussione.

La crisi del Covid-19 è dunque “epocale” non in sé, ma perché ci pone di fronte, in tutta evidenza, a qualcosa che avevamo sotto gli occhi ma non riuscivamo a vedere: anzitutto, che siamo diventati fragili non come umanità (concetto che ritengo ancora molto sfuggente e contraddittorio), ma come mondo occidentale al tempo del capitalismo avanzato; e poi, che il potere conserva se stesso a costo di provocare morte, isolamento e abbandono. Come mettono in scena molti film di fantascienza distopica contemporanea, questa crisi rende evidente, inoltre, che il mondo di oggi determina una polarità di “alto vs. basso”, di “ricchezza di status vs. assenza di tutto”, e che chi sta in basso vuole arrivare in alto perché l’alto attrae irresistibilmente.

Non credo che questo meccanismo possa essere infranto con le pratiche di mutualismo sociale, che pure sono un argine alla barbarie del “tutti contro tutti”. A mancare, in tali pratiche, è soprattutto quella che chiamerei l’attrattiva della rivoluzione. So che può sembrare una frase molto astratta, ma non trovo di meglio per interrogarmi sul perché tali pratiche riescano ad attirare soltanto alcuni soggetti (e spesso sono gli stessi che praticherebbero il mutualismo religioso, cioè vogliono aiutare gli altri e, al tempo stesso, trovare un senso di appartenenza e di redenzione personale), senza riuscire a raggiungere un carattere di massa. La ragione non risiede nel fatto che tutti gli altri sono individualisti spietati (è un modo di ragionare troppo auto-assolutorio per  essere davvero corretto): la dimensione di massa va sicuramente costruita, e i soggetti che praticano il mutualismo sociale potrebbero diventare, in tal senso, una nuova avanguardia rivoluzionaria; ma devono ritrovare, in primo luogo in se stessi, il senso dell’assalto al cielo e non del mantenimento di piccoli recinti virtuosi; solo così potranno parlare anche a chi non ha recinti sociali dove stare, e nella società globalizzata questi sono la maggior parte degli esseri umani. Perché c’è anche un’altra evidenza che la crisi del Covid-19 potrebbe rendere manifesta: come il potere tende ad auto-preservarsi, così chi il potere non ce l’ha potrebbe tendere alla rivolta. Potremmo entrare, insomma, in un tempo di nuove rivolte, e per starci dentro dobbiamo capire il contesto nel quale sorgono e la direzione che indicano.

Non basta, insomma, propugnare un nuovo umanesimo che parli dell’uomo in generale, che assuma i toni della filosofia morale, dai tratti rassegnati e volontaristicamente ottimistici, e della pratica sociale che difende i propri recinti. Credo sia necessario ritornare a pensare quello che Camus chiamava l’uomo in rivolta, ovvero

un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando.

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