La pandemia vissuta in un luogo di lavoro con le paure e le speranze dei lavoratori per il dopo covid19
Inizialmente pensavano che il Covid 19 fosse qualcosa di lontano, che riguardava la Cina, oppure qualche altro paese orientale, come il Giappone o la Corea, così come lontana era stata la Sars o l’Ebola, che avevano interessato il vecchio continente africano. Altri pensavano fosse tutto un complotto organizzato da quale grande potenza, cioè gli USA, per mantenere la leadership mondiale ai danni della Cina.
Poi ci sono stati i primi contagiati in Italia. Ma tutto sommato riguardava i paesi del Lodigiano, nella zona rossa. L’informazione intanto ci rassicurava comunicandoci che era poco più di una influenza di stagione e che faceva vittime soprattutto tra le persone molto anziane con problemi di salute pregressi. In tv era in onda il festival di Sanremo e il calcio continuava la sua stagione con le sfide per lo scudetto e le coppe internazionali.
Nelle fabbriche eravamo preoccupati ma non allarmati, e si conduceva, al lavoro, la vita di ogni giorno, normalmente.
Il campanello d’allarme è scattato successivamente, quando la Lombardia, il Veneto, il Piemonte ma anche l’Emilia Romagna hanno cominciato a risultare contagiate in modo serio. Le notizie si rincorrevano, sempre più drammatiche e martellanti: e allora c’è stata la fuga dei lavoratori meridionali emigranti, che in pochi giorni dal nord sono tornati al sud, complicando le cose e alimentando il clima di paura.
In seguito l’informazione che all’inizio era quasi rassicurante, con il crescere dell’epidemia, si faceva sempre più “preoccupata” e denunciava che le strutture sanitarie in Italia non sarebbero state in grado di accogliere tutti i contagiati dal covid19 e che probabilmente non tutti sarebbero stati curati. Intanto l’OMS (organizzazione mondiale della Sanità) elevava il covid 19 da epidemia a pandemia.
Ma a creare ulteriore panico nella nostra azienda, tra noi lavoratori, c’è stato il contagio di un componente dello staff dirigenziale, che aveva avuto contatti oltre che all’esterno, con il personale interno e aveva fatto incontri con la R.S.A in azienda. E dire che qualche giorno prima, tutti insieme avevamo fatto un selfie, senza mascherine né dispositivi di protezione, ma con la scritta bene in vista “andrà tutto bene”.
Così tutti coloro che erano stati a stretto contatto con il contagiato, compreso la R.S.A., come prevede il protocollo in materia, sono stati messi in quarantena.
I lavoratori, pur senza R.S.A. non si sono persi d’ animo. Hanno chiesto in gruppo e singolarmente innanzitutto i dispositivi di protezione e il rispetto della distanza sociale nelle lavorazioni: precauzioni che fino ad allora erano state messe in atto in modo alquanto grossolano, anche per la mancanza di informazione dettagliata da parte dell’azienda, obbligatoria secondo il Testo Unico sulla Sicurezza.
Nei giorni successivi, fino alla sigla del protocollo anti-contagio da parte del governo e delle organizzazioni sindacali, e, successivamente. al decreto di chiusura delle attività non essenziali definite dai relativi codici Ateco, la situazione è stata di caos e di proteste con brevi fermate spontanee da parte dei lavoratori.
Nonostante le richieste e le proteste i dispositivi di sicurezza, come mascherine e guanti, non ce ne erano per tutti, ed il distanziamento sociale era comunque di difficile applicazione.
Intanto giungevano notizie sempre più frequenti di scioperi al nord come al sud per la mancanza di sicurezza nelle aziende e per il contagio da coronavirus a cui andavano incontro i lavoratori pendolari.
Anche nella nostra azienda si protestava: soprattutto per le forzature delle regole di sicurezza che avvenivano nello svolgimento delle lavorazioni: ben 60 -70 lavoratori su 600 dipendenti preferivano mettersi in malattia anziché andare incontro a probabili rischi.
Quello che ha fatto riflettere molti di noi, è stata la situazione di orizzontalità in cui ci siamo venuti a trovare: i ruoli infatti sono saltati, il vecchio equilibrio aziendale veniva scosso in quanto a protestare erano un po’ tutti, anche coloro che si erano mostrati, in passato, sempre obbedienti ai diktat della dirigenza, come i caposquadra. Si difendeva come era logico ”la nuda vita” anziché la carriera, i soldi e quant’altro non rientrasse nella salvaguardia della propria incolumità.
Tra lavoratori inoltre si discuteva anche della mancanza di umanità padronale in fabbriche come la F.C.A. di Pomigliano D’arco, i cui i dipendenti erano comunque costretti a lavorare nonostante i rivenditori fossero chiusi a causa del virus, i piazzali fossero pieni di macchine, e ci fosse un calo delle vendite a livello nazionale e mondiale. Alla fine i lavoratori F.C.A. hanno scioperato e sono riusciti a far chiudere l’azienda.
Si discuteva tra noi. E ci colpiva che i lavoratori dei servizi e quelli esposti in prima linea contro l’epidemia coronavirus, operavano in non pochi casi senza dispositivi di sicurezza e senza protezioni adeguate. Lavoratori mandati in trincea senza le armi necessarie per combattere il virus: per cui molti si contagiavano e purtroppo qualcuno moriva. E si discuteva anche del fatto che non poche attività chiudevano definitivamente, per le difficoltà a cui stavano andando incontro.
Tutta questa situazione ci ha allarmato non poco: tornavamo infatti a casa stressati e con la paura addosso di essere stati contagiati, di contagiare i nostri cari e di poter perdere il posto di lavoro.
Poi c’è stato il decreto sulle lavorazioni non necessarie e siamo stati messi in c.i.g. e adesso aspettiamo che ci diano nuove indicazioni sul che fare, sempre con la paura di un ridimensionamento dell’azienda.
Sappiamo bene che non tutte le fabbriche con lavorazioni non necessarie, sono state chiuse: infatti quelle strategiche legate agli armamenti sono rimaste aperte, come se costruire aerei da guerra, bombe e armi fossero strumenti necessari a combattere il coronavirus.
Siamo tutt’ora indignati per tutto ciò.
Ora si parla di ripartire, di ritornare al lavoro.
Tutti vorremmo la normalità di una volta ma ci rendiamo conto che al momento non è possibile. E che, forse, proprio la normalità di ieri è stata la causa dei problemi che abbiamo oggi.
La ricerca forsennata del profitto e la devastazione ambientale, infatti, sono tra le cause principali che hanno scatenato il coronavirus. I tagli e le privatizzazioni alla Sanità Pubblica hanno fatto in modo che mancassero posti letto e personale per curare i malati, E l’allungamento della catena del valore ha spostato in luoghi lontani la produzione dei dispositivi di protezione di cura, come le mascherine e i ventilatori polmonari.
Quindi come ripartire se non ci sono i dispositivi di sicurezza?
Mancano negli ospedali, figuriamoci sui posti di lavoro e poi la distanza sociale è difficile da mantenere: andiamo incontro alle sicure pressioni delle aziende e a molti rischi. Si sa: il padronato è cinico e non guarda agli impedimenti pur di fare profitti.
Abbiamo paura! Si abbiamo paura, anche perché la situazione non si concluderà a breve, in quanto non c’è una cura appropriata e neanche un vaccino.
Abbiamo timore anche per il dopo: poiché il Paese è già esposto economicamente, e con i nuovi debiti, se non si cambia registro, saranno, come al solito, i lavoratori a pagarne il costo.
Questa esperienza ci ha insegnato, caso mai se ce ne fosse bisogno, quanto siano importanti i lavoratori tutti; senza di loro questo paese non reggerebbe. State tranquilli che il padronato e le loro rappresentanze politiche non lo riconosceranno mai e non ci regaleranno niente in termini di migliori condizioni di vita e di lavoro.
Il padronato e i ceti privilegiati, infatti, vorranno tornare alla normalità di una volta, con il suo carico di ingiustizie, disuguaglianze e distruzione dell’ambiente. Penso, però, che dopo questa esperienza abbiamo più consapevolezza di cosa sia “il bene comune” e che sarà più difficile per loro convincerci del contrario.
Ci sono dei fattori inaspettati che al momento giocano a nostro favore e che si sono verificati purtroppo in questa tragedia. Con la pandemia in atto infatti sono crollati di molto i consumi legati al petrolio, per cui sembra che ci sia la volontà, per il dopo covid19, di passare dal consumo di combustili fossili alle energie rinnovabili. Tante battaglie per avere energia pulita che potrebbero vedersi concretizzate solo dopo questa purtroppo immane tragedia.
E’ un virus che con il suo carico di drammaticità sta scuotendo il vecchio mondo. E proprio perché nessuno ci regala niente, c’è bisogno di unirci come lavoratori, con le nostre organizzazioni politiche e sociali, ed essere all’altezza della sfida del cambiamento che abbiamo davanti. C’è bisogno di mettere al centro delle politiche economiche e sociali ”il bene comune” , l’ambiente e le persone con i loro bisogni. E non più i profitti dei pochi che mettono a rischio la vita sul nostro pianeta.