Credo che le Ultime lettere dei condannati a morte della Resistenza europea siano state, oltre che una costruzione di straordinario valore storico, una delle grandi buone azioni del Novecento. Per questo suo merito, Giovanni Pirelli resterà imperituro nel ricordo.
Egli ha raccolto, assieme a Piero Malvezzi, le parole dette nell’ora più scura.
La più scura, finora, della storia contemporanea.
E sono tutte belle quelle lettere. Ma qualcuna è più bella delle altre.
Più bella perché più intensamente rivolta a se stesso prima che agli altri.
Si può parlare, dunque, nell’ora oscura.
Ma bisogna farlo con misura, alternando le parole e i silenzi.
E qui sta il nodo: come si potrebbe, come si dovrebbe parlare? Come, nella nuova ora buia che stiamo vivendo?
Leggo un mare di parole – si legge molto perché i social sono un deposito infinito di parole.
Le parole e i pensieri più disparati.
Leggo molto di conti da fare, di colpe da dare, di proposte da lanciare.
Per carità, ogni cosa che viene detta, per il solo fatto di essere detta ha le sue buone ragioni.
E però a me pare che tutte partecipino d’una medesima terribile colpa: sono tantissimo rivolte agli altri, pochissimo rivolte a se stessi.
Anche nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza europea molti si rivolgevano appassionatamente agli altri: chi raccomandando la vendetta, chi raccomandando di tenere alta la bandiera, chi domandando implicitamente, talvolta esplicitamente, di seguire il proprio esempio.
Tutte parole grandi, generose.
E tuttavia ancora più grandi e generose io ho sentito le parole pronunciate come esame di coscienza. Quelle che chiedevano dubitativamente alla propria anima se fossero stati buoni padri, buoni mariti. Buone madri. Persone buone.
Se fossero stati esseri umani in senso pieno.
Scriveva Louis Jensen, un comunista olandese di 42 anni, fucilato nell’ottobre del 1943: “Miei cari vorrei dirvi ancora tanto, ma purtroppo non ne ho più occasione. Soltanto questo: non sono vissuto invano, la mia vita ha avuto uno scopo e questa convinzione mi dà sollievo nel momento di morire”. E Valerio Bassavano, un genovese di 21 anni, della terza brigata Garibaldi “Liguria”, fucilato il 19 maggio 1944: “Ho voluto seguire la mia idea e adesso mi domando se di fronte a te avevo il diritto di farlo. Perdonami, mammina, se ti cagiono questo grande dolore. Ti avevo pur detto che mi sembrava poco naturale restar vivo solo io fra tanti compagni morti”.
Ecco: nessuno di noi sarà fucilato oggi. E la stragrande maggioranza di noi, la quasi totalità di noi non sta affatto per morire.
E tuttavia viviamo, qui e ora, un tempo buio, che non ci aspettavamo.
Non è un tempo da parole imperiture, scolpite nel tempo. Come quelle di Jensen e di Bassavano.
Ma qualcosa di analogamente significativo, in tono minore, pure sarebbe utile leggerlo in queste giornate.
Senza essere costretti a continui slalom tra proclami, rivendicazioni, denunce, invettive. O tra proposte meravigliosamente articolate.
Non chiedo poi molto. Mi basterebbe leggere, ad esempio, non solo che bisogna farla finita col capitalismo che sta dentro la società, perché ha avvelenato l’ambiente e indebolito le difese dell’esistenza umana; ma anche che bisogna farla finita col capitalismo che sta dentro di noi. Che bisognerebbe farla finita col nostro stile di vita.
Leggere piccole parole così, insomma.