di Luigi Nappi
E’ un dato provato che lo sviluppo di alcuni paesi (quelli che il Novecento ha definito, non senza ragione, “paesi imperialisti”) è la causa principale del mancato sviluppo della maggior parte dei paesi del mondo. E’ la maniera del tutto “irragionevole” di funzionare del capitalismo: ad un polo di accumulazione corrisponde inevitabilmente un polo di spoliazione e di immiserimento. In effetti, non serve uno sguardo retrospettivo alla storia per riconoscere che il capitalismo è all’origine di tutti gli squilibri del nostro pianeta: gli esseri umani lo subiscono costantemente ogni giorno, sia quelli dei paesi ricchi che quelli dei paesi poveri; e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Il capitalismo contemporaneo è costituito da un abnorme mosaico di relazioni sociali, e perciò coinvolge ogni aspetto non solo della produzione ma anche del vivere civile. Tuttavia, in tale mosaico, non tutte le linee di azione hanno lo stesso peso. Nelle dinamiche interne al sistema stesso, le frazioni dominanti – cioè i capitalisti veri e propri, i manager delle principali aziende bancarie e industriali e i grandi funzionari della macchina statale – impongono ruvidamente le regole del gioco. Il caso dei “paradisi fiscali” ne è una esemplare riprova.
In verità, l’espressione “paradiso fiscale” è riduttiva, nel senso che i vantaggi che si possono ricavare non hanno a che fare solo con la tassazione. In senso più ampio, un paradiso fiscale è una giurisdizione che permette di evadere o eludere (cioè aggirare in maniera “legale”) molte regole che in un altro Paese sono più restrittive. Oltre a quelle fiscali, ci sono per esempio quelle bancarie, sul riciclaggio del denaro o anche le normative commerciali e tecniche. Alle Isole Cayman, per dirne una, è registrato più dell’80% degli hedge fund (i fondi altamente speculativi) del mondo. La Svizzera, invece, è nota per il suo segreto bancario. Tale fenomeno ha le sue radici addirittura nel Medio Evo, allorché i valvassori cercavano scampo alle tasse. Poi crebbe successivamente, a partire dalla Rivoluzione Francese, quando i ricchi trasferivano i loro beni all’estero per proteggere il proprio patrimonio ed eludere il pagamento delle tasse.
E’ tra Settecento e Ottocento che nascono i paradisi fiscali veri e propri. All’origine non erano che dei porti dove potevano trovare rifugio le navi dei grandi imperi europei, al riparo dalla intemperie e dai pirati (da qui il nome tax haven). Poi, tra il 1920 ed il 1940, alcune entità territoriali si specializzarono nella formulazione di legislazioni destinate a sottrarre i patrimoni alla imposte: Panama, Bahamas, Svizzera, Lussemburgo. Ma la crescita impetuosa si è avuta con la liberalizzazione finanziaria degli ultimi trent’anni, allorché si è verificata una generale assenza di controlli sui movimenti di capitale a scala internazionale. In tale contesto il numero dei paradisi fiscali si è moltiplicato vertiginosamente.
In effetti, i movimenti di capitale di origine “legale” trovano nei paradisi un singolare luogo di convergenza. Cero, ad essere favorita è particolarmente la criminalità, che ha tempo e modo di ripulire le proprie ricchezze, riacquistando verginità ed onorabilità; ma anche i capitalisti normali ricorrono, del tutto lecitamente e in piena normalità a questa giurisdizione, proprio per proteggere i propri capitali e ridurre il carico fiscale, anche fino ad azzerarlo. Sono veri e propri porti franchi privi di ogni controllo, ma capaci di nascondere tesori che ammontano a cifre esorbitanti. Ma soprattutto le formalità societarie e contabili sono ridottissime, ed è questo che forse interessa di più ai grandi gruppi che mettono sede legale in questi particolarissimi paesi. In ogni caso, per avere un metro di misura, basti pensare che l’attività dei paradisi fiscali è oggi caratterizzata da un giro di affari stimato in oltre 1800 miliardi di dollari l’anno; e nei soli paradisi europei sono registrate oltre di 1 milione di società e un numero più che doppio di trust. Sono numeri che bastano a farci capire l’essenziale: e cioè che le potenze industriali sono state fin dall’origine implicate nella creazione di queste oasi del riciclaggio. I paradisi hanno contribuito e contribuiscono alla fortuna delle potenze finanziarie. Difficilmente, perciò, le potenze mondiali accetteranno di disfarsene.
Del resto i paradisi fiscali servono a snellire tutti i movimenti consueti del mercato capitalistico. Servono alle banche per finanziarsi, agli speculatori per fare affari in borsa, alle mafie per riciclare il denaro illegale, agli evasori fiscali che mettono al sicuro le loro ricchezze sconosciute, ai padroni che “delocalizzano” imprese e servizi, agli operatori finanziari che comprano e vendono senza posa. C’è poco da questionare: i governi “neoliberisti” offrono sia ai paesi cosiddetti a fiscalità avanzata, sia a quelli con fiscalità privilegiata una scorciatoia con i fini, le logiche e la prassi del capitalismo più sfrenato. Per questo, ogni volta che sentiamo tuonare i compassati ministri dei grandi paesi industrializzati contro i paradisi fiscali, ci viene da sorridere. E’ il sistema stesso che li alimenta. Ma loro fanno finta di non saperlo…