di Carmine Malinconico
L’esperienza del Confederalismo Democratico sviluppatasi negli ultimi 5 anni nel Rojava, la regione del Nord della Siria abitata prevalentemente, ma non esclusivamente, da kurdi, nasce dalla storia del movimento rivoluzionario kurdo della Turchia e della Siria e dal percorso politico e teorico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Un ruolo fondamentale in questo percorso ha avuto ed ha il lavoro di riflessione teorica del Presidente Abdullah Ocalan.
Si tratta di un’esperienza rivoluzionaria che delinea un paradigma politico-teorico profondamente innovativo e che si propone come alternativa a quella che Ocalan chiama “modernità capitalistica”, ovvero la forma contemporanea del capitalismo, sia nella sfera dei rapporti sociali e di sfruttamento, sia nei meccanismi del dominio politico-culturale.
Alla modernità capitalista, il paradigma confederalista – democratico contrappone l’ autonomia democratica, che costituisce una forma di autorganizzazione e di autogoverno dal basso degli attori sociali, basata sulla pratica concreta dell’egualitarismo, della solidarietà, della condivisione, dell’ecologismo, della parità di genere, della democrazia diretta e partecipata, della tolleranza e dell’autodifesa.
Siamo di fronte, come è evidente, ad una proposta ambiziosa, che rimette al centro il tema del socialismo e della radicale trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali, sperimentando tuttavia una possibile e realistica strada nuova rispetto alle esperienze rivoluzionarie del XX° secolo, nate con il massimo delle aspettative e conclusesi con il massimo delle delusioni.
Assi portanti della proposta confederalista-democratica sono i seguenti:
- l’antistatalismo
- Il protagonismo diretto degli attori sociali autorganizzati
- La radicalità anticapitalista sui temi dello sfruttamento, del sessismo e maschilismo, dell’ecologia e della solidarietà
- La contemporaneità ed interdipendenza fra trasformazione sociale ed economica e costruzione di una dimensione umana caratterizzata dalla libera e piena espressione di ciascuno e da relazioni interpersonali fondate sulla condivisione e la fraternità.
L’antistatalismo
Nelle società antiche la nascita degli stati centralizzati, costruiti attorno alla figura di un re assoluto e divinizzato, in alcune aree del Medio Oriente e del Mediterraneo (Mesopotamia, Egitto ), ma anche nell’Oriente estremo, venne favorita dall’alleanza tra la casta sacerdotale e la casta militare (ovvero gli anziani depositari delle conoscenze magico – scientifiche, facilmente costruitesi come credo religioso, e i giovani guerrieri, specializzatisi nell’uso delle armi in situazioni di contrasti territoriali) e segnò innanzitutto un primo processo di accumulazione privatistica delle eccedenze alimentari, rese possibili dagli sviluppi tecnici in agricoltura. Le Zigurat, le caratteristiche torri diffuse in tutto il Medio Oriente nelle prime civiltà mesopotamiche, nacquero probabilmente come depositi per custodire le eccedenze, ma assunsero ben presto un significato sacro e simbolico, tanto
che a gestirle furono i sacerdoti e a difenderle i guerrieri. Attorno ad esse si svilupparono le prime città e si generò una gerarchia sociale, determinata sia dal diverso grado di accesso alle eccedenze e ai mezzi di produzione delle eccedenze ( la terra coltivabile), sia dalla maggiore divisione sociale del lavoro. Il nuovo modello di società gerarchizzata aveva nella centralizzazione del potere, incarnato dal re–dio, la sua principale forza. Questo processo determinò, spesso con modalità estremamente violente, la crisi irreversibile del potere diffuso e gestito dal basso dalle comunità di contadini e artigiani, nelle quali le eccedenze costituivano una risorsa condivisa della comunità.
Nel contempo, attraverso stato centralizzato si affermò il potere sessista degli uomini sulle donne. Si trattò della prima forma del potere assoluto, di tipo schiavista, di una parte di umanità sull’altra, e costituì il modello per tutte le altre forme di potere assolute e di riduzioni delle persone a semplici cose da usare.
Lo stato centralizzato si offrì, fin da allora, come la più efficace e autorevole forma di tutela e conservazione della gerarchia sociale, consentendo alle classi dominanti di riprodurre, in condizioni di relativa pace sociale più o meno stabile, il modello di rapporti sociali che ne determinava la posizione di dominio. Anche quando la gerarchia sociale si farà più netta ed articolata ed una classe di proprietari terrieri dominanti acquisirà il potere, determinando nuove forme politiche ( la Polis in Grecia o la Res Publica a Roma) e scalzando o inglobando la vecchia alleanza sacerdoti – guerrieri, la struttura centralizzata di tipo statale non verrà affatto abbandonata, anzi, in alcuni casi (trasformazione della Repubblica in Impero a Roma) verrà notevolmente rafforzata.
Saltando a piè pari diversi millenni, accade che la borghesia capitalista, nella sua ascesa come classe dominante, si impegna fortemente per la conquista del potere statale, ed una volta vinto definitivamente l’ancien régime, mette eguale impegno per rimodellare profondamente i meccanismi di funzionamento e le forme giuridiche del potere, fino a costruire il “suo” stato, lo stato – nazione, sempre più efficace ed organizzato, avendo compreso l’estrema funzionalità ed efficacia di quello strumento. Gli ultimi due secoli hanno visto alternarsi diverse forme giuridiche, ed anche diverse fondamenta teorico – politico, dello stato – nazione: liberale, autoritario, democratico/partecipativo, federale, centralista, interrazziale, su base etnica, su base religiosa, solo per citare esperienze che possono essere riconosciute nella storia del ‘900 e anche in quella contemporanea. Si sono alternati processi di allontanamento ed aspro conflitto tra stati e momenti di avvicinamento e addirittura di integrazione, unioni e separazioni, annessioni e secessioni. Si sono affermate anche dinamiche di assunzione di funzioni e poteri in capo ad entità extrastatali, economiche e politiche, formali ed informali, al punto da far addirittura adombrare una crisi degli stati nazionali ed una loro crescente subalternità a poteri sovranazionali più o meno riconoscibili.
Sta di fatto che ancora oggi gli stati nazionali e centralizzati, ovviamente col primato degli stati economicamente, militarmente e socialmente più avanzati, costituiscono la forma non sostituibile del potere delle classi dominanti in ogni singolo segmento territoriale del pianeta, ed è attraverso di essi che le borghesie più forti ed organizzate esercitano la loro influenza imperialistica. Anche al netto dell’attuale, impetuoso ritorno di teorie e pratiche nazionaliste e sovraniste, le classi dominanti non hanno ancora ideato un modello di organizzazione sociale più efficace e funzionale dello stato centralizzato per conservare e riprodurre la gerarchia sociale e la diseguale distribuzione del potere.
La forma-Stato costituisce, di per sé, un fattore di dominio e di oppressione nei confronti delle masse di individui espropriati dell’esercizio del potere e si contrappone ad esse come motore della divisione sociale e della ingiustizia.
Ne consegue che qualsiasi ipotesi di trasformazione sociale che miri a sostituire un modello statale con un altro, immaginato come più libero e partecipato, risulta fallimentare, come hanno drammaticamente dimostrato le rivoluzioni del XX° secolo. Lo stato centralizzato non può essere sottratto alla sua natura e funzione storica, neppure da una rivoluzione che ne cambi la ragione sociale.
La trasformazione sociale deve contenere, fin dal suo concepimento, l’idea dell’estinzione dello stato e può, anzi deve muovere i suoi passi promuovendo la mobilitazione della società e degli attori sociali sul terreno dell’autogoverno, contendendo fin da subito allo stato spazi ed ambiti di potere reale e di concreta gestione sociale. Mettere in gioco la capacità di autogoverno da parte dei settori sociali subordinati ed oppressi, contro, ma anche a prescindere dallo stato, significa mobilitare le energie più autenticamente rivoluzionarie, significa costruire una socialità fuori dalle logiche del potere gerarchico e dell’ingiustizia, del militarismo e del nazionalismo, e praticare, o meglio tentare di praticare, l’egualitarismo e la solidarietà come nuovo modello di relazioni sociali.
Le numerose esperienze dei cd. “beni comuni”, diffuse in moltissime realtà in Europa come in America, possono rappresentare un significativo esempio di questa forma di pratica radicale e alternativa, sia quando si esprimono nel municipalismo organizzato, sia quando riguardano singoli segmenti di attività o di realtà territoriali. Le esperienze più importanti di pratica di autogoverno antistatale restano ad oggi quella Zapatista in Messico e quella della Regione Democratica Autonoma del Rojava in Siria.
Il protagonismo diretto degli attori sociali autorganizzati
L’autogoverno dal basso, considerato il motore principale del processo rivoluzionario nel paradigma confederalista – democratico, implica la capacità, dei settori subalterni della società capitalistica, di riconoscere la propria condizione e di assumere, in modo diretto e partecipato, la gestione dei processi di riproduzione sociale e delle relazioni interpersonali in ambiti sempre più ampi.
Nel corso degli ultimi due secoli, le classi subalterne hanno sviluppato una grande capacità di autorganizzazione, attraverso la quale hanno implementato percorsi di coscienza e di ribellione rispetto alle loro condizioni. Si pensi all’insieme della storia del movimento sindacale nei luoghi di lavoro, alla diffusione di aggregazioni territoriali ( comitati di quartiere, centri sociali) e allo sviluppo di lotte rivendicative dirette sia alla tutela materiale che al miglioramento degli standard di vita in generale ( istruzione, salute, diritti ecc.).
Anche le formazioni politiche nate nell’ambito del movimento operaio hanno rappresentato un elemento importante di questi processi, in forme e con contenuti diversi. Perfino la gestione di processi economici e produttivi via via sempre più importanti è appartenuta ai processi di autorganizzazione dal basso, si pensi per esempio al movimento cooperativistico in Italia.
Tuttavia, questi processi, nella grandissima parte, non sono mai andati oltre l’intenzione e la percezione di sé, appartenuta a tutto il movimento operaio e socialista del novecento, di essere segmenti della complessiva strategia, di parte anticapitalista, finalizzata alla conquista del potere politico e a mettere le mani sullo stato e sul suo apparato, per trasformalo in senso socialista. Per i partiti politici era la mission dichiarata, nelle altre forme di organizzazione era una domanda di rappresentanza o di interlocuzione politica che attraversava il complesso della loro azione.
Attualmente, in questi primi decenni del XXI° secolo, gli esiti di questi percorsi storici sono tutt’altro che esaltanti. I partiti politici “operai” sono stati fagocitati, nella loro componente largamente maggioritaria, dalla logica politica statalista, diventando parte del meccanismo politico delle democrazie rappresentative, dopo essersi assestati, nel migliore dei casi, sulla posizione di amministrare l’esistente con un po’ più di equità e con politiche ridistributive, spesso erose dalle crisi cicliche del capitalismo e dalle oscillanti sorti della globalizzazione. Il tema dell’alternativa globale di società è stato definitivamente abbandonato.
I sindacati hanno accentuato il carattere di mero strumento rivendicativo, quando non addirittura corporativo, trasformandosi, spesso, in cogestori dei meccanismi di determinazione del costo medio del lavoro salariato, con un accentuato verticismo che ne fa, in molte occasioni, un corpo estraneo alla condizione reale e ai bisogni delle classi lavoratrici. Dal loro campo d’azione, la domanda politica tenta a scomparire, o a diventare un richiamo meramente formale. Le esperienze di sindacalismo autorganizzato che hanno rifiutato le logiche verticistiche e conservato una reale struttura di organizzazione e direzione dal basso, costituiscono un ambito nel quale, quanto meno, è stata preservata ( o si è lottato per preservare) la pratica del protagonismo diretto. Tuttavia l’orizzonte di riferimento resta, nel migliore dei casi, una più dignitosa condizione del lavoro nei meccanismi di scambio diseguale capitale-lavoro.
Le esperienze economiche e produttive cooperativistiche hanno perso quasi del tutto la loro caratteristica di “alterità”, rispetto alla produzione e all’economia capitalista, e hanno dato vita a soggetti economici in niente diversi da tutti gli altri. Spesso, per dimensioni e penetrazione nei mercati, questi soggetti sono addirittura concorrenziali con le multinazionali tradizionali, delle quali assumono in pieno le politiche di gestione del lavoro, le logiche di profitto e le finalità di accumulazione.
La profondità ed estensione con le quali la sostanza dei rapporti sociali capitalistici ( riduzione di ciascun individuo ad appendice del sistema macchinico generale) è penetrata in tutti gli aspetti della società contemporanea, rendono inefficaci le teorie e le pratiche conflittuali che non si propongono come modelli viventi di rapporti sociali radicalmente alternativi.
Ciò rende evidente, in tutta la sua pienezza, la assoluta insufficienza delle pratiche di autorganizzazione quando non pongono anche il tema dell’autogoverno, ovvero non sfidano il capitalismo con la concreta realizzazione di modelli relazionali, economici e culturali che segnino una rottura netta con l’esistente. Su questo terreno si misura oggi il protagonismo diretto degli attori sociali, con la peculiarità, rispetto al passato, che questo sforzo di protagonismo diretto deve vedere impegnato ciascun essere umano quale portatore, nella sua individualità, di ragioni di infelicità determinate da questo sistema ingiusto. È a partire da questa condizione che vanno ricostruiti la dimensione collettiva ed il senso di comunità.
Il protagonismo diretto può e deve esprimersi in ogni ambito della vita collettiva, dal governo dei territori alla organizzazione e gestione dei servizi e della mutualità, dalla relazione con la natura alla produzione e riproduzione dei beni sia materiali che immateriali.
La pratica concreta del protagonismo diretto e dell’autogoverno può assumere, ed assumerà forme e caratteristiche diverse, a secondo delle condizioni storiche, sociali e culturali delle varie realtà. Può divenire fin da subito una pratica alternativa e conflittuale con lo stato e le istituzioni politiche esistenti, ma può anche svilupparsi come esperienza di autonomia all’interno della società, vivendo e sviluppandosi indipendentemente dalle istituzioni esistenti, con le quali il rapporto sarà inevitabilmente basato sulle rispettive forze e avrà carattere concorrenziale, anche in forme non necessariamente violente. In ogni caso, l’orizzonte resta lo sviluppo di una comunità umana libera e fraterna, che superi e renda obsoleta ogni forma di autoritarismo e di oppressione.
Ovvio corollario del protagonismo diretto è che non esistono “partiti guida”. Chiunque può organizzare e fare agire nella società aggregazioni politiche, e attraverso di esse esprimere strategie e visioni diverse. È altrettanto ovvio che un partito che avesse nel suo programma l’instaurazione di un potere autoritario e centralista, oppure la creazione e/o difesa di una società gerarchizzata, divisa per caste, o razze, o credi, o generi ecc. o, ancora, l’affermazione di un regime economico basato sull’arricchimento di pochi e lo sfruttamento di molti e sulla sistematica depredazione della natura, sarebbe di per sé incompatibile con la realtà del confederalismo – democratico. Equivarrebbe, all’incirca, ad un partito che oggi avesse nel suo programma la reintroduzione dello schiavismo o la restaurazione della monarchia assoluta. Se una formazione con tali caratteristiche operasse apertamente per l’affermazione del suo modello sociale ed economico, porrebbe alle comunità autogovernate e fondate sul confederalismo – democratico il tema dell’autodifesa.
La radicalità anticapitalista
L’ambizione del paradigma confederalista – democratico è alta, tale da prevedere, come suo esito, niente di meno che il radicale superamento del capitalismo.
Nell’esperienza del Rojava l’autorganizzazione e l’autogoverno diretto si estende a tutti gli ambiti della società e delle attività umane. Dalle assemblee popolari di villaggio e di rione, che gestiscono i territori, i servizi e la mutualità, alle assemblee dei luoghi di lavoro che gestiscono la produzione, dall’autorganizzazione delle donne, alle accademie scientifiche, artistiche e creative che gestiscono la ricerca scientifica e le attività culturali. Ciascun individuo può essere coinvolto in uno o più di queste strutture ed è stimolato a partecipare a tutti i livelli dell’autogoverno.
Un sistema di deleghe traduce e coordina a livello più ampio, attraverso assemblee cittadine, cantonali ed infine dell’intera regione autonoma, e attraverso consigli esecutivi, le decisioni e le direttive adottate dalle assemblee di base. La partecipazione ai livelli più ampi non può mai assumere carattere “professionale”, è soggetta alle assemblee di base ed è revocabile. Ciascun organismo dell’autogoverno, a livello di base e a livello superiore, è presieduto da due copresidenti un uomo e una donna, per un periodo limitato.
Contenuto specifico dell’autogoverno è, innanzitutto, l’uguaglianza sostanziale tra tutti i membri della comunità. Ciò significa, in primo luogo, offrire a tutti le stesse opportunità di vita, sia sul piano delle condizioni materiali, sia nella espressione della propria individualità. Per rendere questa pratica concreta, vanno considerate anche le diversità di condizioni di partenza di ciascuno, per cui può accadere anche, per esempio, che a parità di lavoro siano ridistribuiti benefici diversi, a secondo dei bisogni, o anche che sia consentito, a chi ha particolari abilità, conoscenze o talenti, di poterli liberamente esprimere, senza tuttavia che questo diventi fattore di privilegio sociale. Il principio della solidarietà informa l’intera azione della struttura sociale.
In questo percorso il protagonismo delle donne e la lotta al patriarcato e ad ogni forma di discriminazione o di privilegio fondati sul genere non è un semplice accorgimento formale, è un elemento costitutivo della realtà del confederalismo – democratico. La società “femminilizzata” è sicuramente più recettiva e reattiva alla domanda di solidarietà e condivisione, per cui questo elemento deve attraversare nel profondo l’identità sia femminile che maschile.
Lo stesso vale per una cultura e una pratica coerentemente ecologista. La natura, in tutti i suoi elementi, dalle risorse energetiche, alle piante, agli animali, agli ambienti, non è di proprietà degli uomini, essa va trattata con il rispetto e la considerazione che si deve a chi ci ospita, non va mai consumata inutilmente e la sua conservazione è un fattore di benessere per le generazioni presenti e future.
La stessa produzione di beni materiali è governata direttamente dai produttori, ed è improntata al continuo e sistematico sforzo di coordinare e rendere compatibili le condizioni concrete di chi produce, in termini di fatica, di concreta possibilità di vita, di rischio di alienazione, e gli effettivi bisogni della comunità, con ovvia attenzione a quelli primari e poi, via via, a quelli espressione della domanda generale di migliori condizioni di vita. A questo sforzo sono chiamati a partecipare sia gli organismi di autogoverno dei territori, a tutti i livelli, che le assemblee di autogoverno dei luoghi di lavoro.
Una società che rifiuta ogni forma di sfruttamento, di sottomissione e di autoritarismo, che produce e consuma secondo criteri ecologici, che supera ogni forma di privilegio e discriminazione di razza, etnia, religione o genere, che vede protagoniste le donne a tutti i livelli, nella quale non esiste vero benessere individuale se non in presenza di un diffuso benessere collettivo, è una società che si ispira a quanto di meglio hanno prodotto nella storia il movimento operaio ed il pensiero rivoluzionario socialista, comunista e libertario.
L’orizzonte del confederalismo – democratico è il socialismo. Si tratta, tuttavia, di un socialismo che ripudia l’autoritarismo di stampo statalista, che richiede la libera espressione e la attiva partecipazione di ogni singolo individuo e che soprattutto affida la propria stessa esistenza alla fraternità, alla capacità di ciascuno di riconoscere nell’altro un amico col quale condividere lo stesso amore per la comunità. È questa, al di la di ogni regola scritta o dichiarazione formale ( che pure saranno comunque necessarie), la condizione indispensabile per una vita pienamente libera e felice.
Una particolare riflessione va fatta su quello che viene definito, nel confederalismo – democratico, il diritto di autodifesa. Esso va inteso innanzitutto come un elemento della democrazia reale, ovvero
come la possibilità, di ciascuna componente sociale collettiva, alla quale è riconosciuta libertà di azione e di espressione, di difendere la propria esistenza contro i tentativi di negazione. Ciò avviene normalmente con il metodo della discussione e della libera manifestazione del pensiero, in quanto regola fondamentale è la risoluzione non violenta di qualsiasi controversia. Tuttavia, di fronte all’aggressione fisica e violenta, l’autodifesa proporzionata può essere esercitata da chiunque. Ciò, a maggior ragione, vale per la Autonomia Democratica nel suo insieme. Una forza di autodifesa, fin quando persisteranno i rischi di aggressione contro l’esperienza confederalista – democratica, va dunque prevista ed organizzata, con alcune pecurialità. Innanzitutto essa non è un corpo di militari professionisti estranei alla società, i suoi membri, in condizioni normali, partecipano alla vita dell’autorganizzazione sociale, ed essa stessa, in tempi di pace, è gestita secondo i principi dell’autorganizzazione e dell’autogoverno. Ovviamente, in caso di aggressione violenta, i meccanismi di gestione democratica saranno ridotti e resi compatibili con le condizioni concrete dello scontro.
L’interdipendenza tra rivoluzione sociale e rivoluzione antropologica
Il confederalismo – democratico non è solo una modello di organizzazione sociale, è anche, anzi soprattutto, una nuova forma di rapporti sociali. Esso pone agli individui, a ciascun individuo, una sfida alta e difficile: realizzare una più piena condizione umana. Richiede di sviluppare non solo una diversa idea di vita comune, ma anche una diversa sensibilità verso ciò che è profondamente giusto e bello, una capacità di amare, di emozionarsi, di relazionarsi alle persone e alle cose con spirito libero dalla volontà di potere, di possesso e di sopraffazione.
Ponendo quale pilastro della sua stessa esistenza la fraternità, il confederalismo – democratico ha la sua vera ricchezza nella possibilità che ciascuno esprima pienamente e liberamente la propria umanità, nella piena consapevolezza che le società classiste e oppressive hanno negato alle donne e agli uomini sia la felicità che la creatività.
Senza questa sfida, intesa come una tensione che deve attraversare l’intera comunità umana, nessuna architettura sociale può reggere alle dinamiche regressive che ripropongono la gerarchia, l’autoritarismo, il privilegio, in una parola, le diseguaglianze e gli egoismi che hanno retto per secoli le società classiste e autoritarie.
L’alternativa tra società libera e solidale e barbarie è, purtroppo, sempre presente nella comunità umana, e solo una diversa e più consapevole qualità degli individui, uomini compiutamente formati come tali, può dare reali garanzie che la barbarie non trionfi.
L’educazione, l’esempio, la testimonianza svolgono un ruolo decisivo in questo ambito. Un modello educativo può e deve scegliere i suoi valori di riferimento, questo è avvenuto e avviene in ogni società organizzata. Educare alla solidarietà, alla condivisione, al rifiuto delle discriminazioni e dei privilegi, al rispetto della natura, alla libera espressione delle idee, alla ricerca del giusto, del bello e dell’armonia, alla risoluzione non violenta delle controversie, al rifiuto dell’ipocrisia e del conformismo costituisce il fondamento di un modello educativo coerente con il confederalismo – democratico. A questo modello educativo devono ispirarsi non solo le strutture deputate alla formazione e alla educazione, ma ogni struttura dell’autorganizzazione sociale e ogni strumento della comunicazione.
Ciò non significa una piatta uniformità della proposta educativa e culturale. Al contrario, la diversità di approcci culturali e di espressioni artistiche costituisce una ricchezza per ogni percorso di liberazione. Quello da cui le diverse scuole di pensiero non possono prescindere è il principio condiviso che ogni singola persona deve essere resa padrona della propria esistenza, non deve essere sfruttata, deprivata, annichilita da condizioni di sudditanza e sottomissione, resa impotente e ricattabile dalla privazione materiale e dalla marginalizzazione sociale, discriminata per il sesso, la razza, la religione o qualunque altro elemento. Assunto questo come elemento comune, le diverse scuole di pensiero ai esprimeranno e gareggeranno liberamente, ciascuna proponendo le idee e le visioni che ritengono più utili alla comunità.
Lo sforzo collettivo di rendere gli uomini più liberi e giusti, più realmente umani, è parte integrante e decisiva della costruzione dell’autogoverno democratico fin dai suoi primi passi. La società è più libera e giusta, più fraterna ed umana se gli individui sono più liberi e giusti, ed interagiscono in modo fraterno ed umano. Non è neppure immaginabile una comunità libera e solidale nella quale le singole persone siano oppresse, costrette al silenzio e obbligate ad un conformismo di facciata. È stata questa la grande tragedia delle rivoluzioni del XX° secolo ed è un errore che il confederalismo – democratico non intende ripetere.
Naturalmente non si deve commettere lo speculare errore di credere che questo processo, che possiamo definire di rivoluzione antropologica, si possa determinare, o addirittura imporre con una norma emanata da una qualche autorità suprema ispirata e catartica. Sono innanzitutto le condizioni materiali e concrete che possono generare processi di liberazione anche individuale. Maggiore e più diffusa sarà la pratica dell’autogoverno e del protagonismo diretto, maggiore sarà la consapevolezza di ciascuno di poter essere effettivamente libero e protagonista del proprio destino. La condivisione dei processi decisionali può sviluppare la propensione alla cooperazione e alla solidarietà. così come l’eguaglianza e la ricerca del benessere collettivo possono favorire la relazione amichevole con “l’altro”, non più avvertito come un nemico, un pericolo o un concorrente. In ogni caso è solo il metodo della discussione, del confronto e dell’esempio, praticato caparbiamente in ogni ambito della comunità, che garantisce la reale crescita di una nuova coscienza individuale e collettiva.
Anche in questo caso, le donne possono svolgere un ruolo decisivo. Esse sono portatrici, per la loro storia, di una cultura che pone più attenzione alla cura amorevole delle persone, che da più importanza al dialogo che allo scontro. Le donne sono più capaci di costruire rapporti basati sulla solidarietà e la condivisione e sono più propense a relazionarsi con le persone e con le cose in termini non mercantili e utilitaristici. Devono essere in grado di sviluppare questa loro ricchezza e riversarla sull’intera società, contribuendo, in modo decisivo, al percorso di liberazione di ciascun individuo.
Il paradigma confederalista
Il paradigma confederalista – democratico costituisce, dunque, una proposta innovativa per la costruzione di una società libera e per una vita compiutamente umana. Nel nord della Siria esso sta
sperimentando sul campo, ed in condizioni difficili, la sua concreta realizzabilità. Anche se il primo sviluppo si sta avendo su scala locale, esso ambisce a proporsi come modello per ogni popolo e per ogni comunità. Questa ambizione deve confrontarsi, come è naturale per ogni processo storico di cambiamento, con molti temi aperti e molti terreni da esplorare.
Primo fra tutti è capire quali peculiarità deve avere il processo rivoluzionario nelle metropoli capitaliste e nelle società più complesse ed avanzate, nelle quali il modello di organizzazione sociale e di governo basato sulla democrazia rappresentativa e sullo stato – nazione viene presentato come l’unico possibile . Il dibattito sulla praticabilità della democrazia diretta in società complesse è in corso ormai da decenni. Di fronte ad alcuni limiti evidenti della democrazia rappresentativa, scuole di pensiero diverse per ispirazione teorica, sia in ambito giuridico che sul piano sociologico e politico, hanno esplorato questo tema, offrendo risposte che, in alcuni casi hanno dato vita a strumenti di amministrazione e gestione pubblica diretta e partecipata, anche in contesti sociali e urbani complessi.
Il più evidente dei limiti della democrazia rappresentativa è il progressivo distacco dei rappresentanti dall’insieme della società, fino alla costituzione di un ceto politico-amministrativo professionale ed autoreferenziale. Per tutto il novecento la maggiore garanzia di un legame organico tra ceto politico e popolazione era data dai partiti politici, soprattutto in forza del bagaglio teorico, ideale e politico che li caratterizzava. Il legame tra settori sociali e i partiti che li rappresentavano era forte e riconoscibile. I grandi partiti di massa, in particolare quelli nei quali si riconoscevano le classi lavoratrici, garantivano, nella loro vita interna, forme di partecipazione diretta e diffusa alla vita e alle scelte politiche. La crisi dei partiti di massa e delle forti identità ideologiche hanno favorito la trasformazione dei partiti in comitati di affari e degli eletti in “padroni” del potere politico , spesso sostenuti da lobby economiche. Non a caso appena si sono presentate sulla scena politica partiti o anche aggregazioni costruite intorno a leader carismatici, “anti –casta” e “voce della gente comune”, senza una riconoscibile caratterizzazione ideologica, anzi, spesso dichiaratamente anti – ideologici, i loro esponenti hanno conosciuto, un po’ ovunque, grande fortuna.
Altro grande limite della democrazia rappresentativa, in parte conseguente alla degenerazione delle rappresentanze politiche, e in parte favorita dai meccanismi di alienazione e di conformismo generati da una comunicazione culturale sempre più manipolativa ed escludente, è la crescente indifferenza di estesi settori della popolazione alla vita politica, ai suoi meccanismi e alle sue procedure. Indice di questo fenomeno non è solo la progressiva e inarrestabile riduzione dei votanti nelle grandi nazioni avanzate, per cui non sono rari i casi di eletti in posti di potere anche di notevole importanza ( sindaci di grandi città, governatori di province e regioni, addirittura presidenti di stati) con percentuali di consensi di molto inferiori al 50% del corpo elettorale, ma anche la diminuzione costante di iscritti ai partiti politici e agli stessi sindacati.
Paradossalmente, con una contraddizione che la dice lunga sulla effettiva necessità di vera democrazia, a fronte della crisi della politica, cresce la domanda di partecipazione diretta in innumerevoli ambiti della vita collettiva e dell’interesse pubblico. Lo sviluppo del volontariato nei campi più diversi ( ambiente e cura del territorio, cura delle persone, tutela dei beni artistici, per dirne solo alcuni), la diffusione di pratiche di autogestione di spazi e di strutture abbandonate, la costruzioni di reti, attraverso i moderni mezzi di comunicazione collettiva, su specifiche questioni o singoli obbiettivi, segnalano la straordinaria capacità di interazione sociale che hanno oggi milioni di individui. Essa si esprime in forme e dinamiche non più riconducibili, in gran parte, alle forme della politica come si erano definite nel secolo scorso.
Senza enfatizzazioni e, soprattutto, senza celebrare come già acquisito il nuovo paradigma della democrazia, un ruolo notevole può svolgere, nell’interazione sociale democratica, la rete per eccellenza, internet. Le sue indubbie potenzialità, tuttavia, sono ancora in bilico tra un esito regressivo, che farebbe della rete il più efficace strumento di controllo sociale e di manipolazione culturale mai concepito, ed un esito emancipativo, che ne farebbe un mezzo straordinario di condivisione e partecipazione. Oggi, come è noto, entrambe queste opzioni sono in gioco ed è probabile che internet, per un periodo ancora lungo, resterà terreno di scontro tra le forze della reazione e dell’oppressione, decise a ridurre gli uomini ad appendici passive di un potere sempre più dispotico e centralizzato, e il movimento di liberazione, che ha bisogno di individui più informati, più capaci di cooperare e condividere e decisi ad esprimersi senza condizionamenti.
Del resto, è lo stesso sviluppo del capitalismo nella sua forma contemporanea, con la esponenziale crescita del lavoro cognitivo e con la crescente proletarizzazione del lavoro intellettuale, ad aver creato grandi masse di individui con maggiore accesso alle informazioni, maggiore attitudine alla cooperazione, alla flessibilità, alla interrelazione, ed anche potenzialmente più consapevoli dell’enorme vantaggio che cooperazione e condivisione possono rappresentare per un pieno sviluppo umano. È la condanna storica del capitalismo: più si sforza di estendere il suo modello di rapporti sociali ad ogni aspetto dell’attività umana e di accentrare nelle sue mani il governo dei meccanismi della riproduzione sociale, più rafforza le schiere dei suoi nemici.
Per il movimento rivoluzionario nei paesi capitalistici più avanzati il confederalismo – democratico può rappresentare la base per ricostruire una teoria e una prassi della rivoluzione per il nostro tempo. Andrà ovviamente adattato alla condizione sociale e politica reale con la quale dovrà confrontarsi, dovrà immaginare strumenti e percorsi nuovi, nei quali autogoverno e radicalità degli obbiettivi agiscano nel concreto, facendo crescere gli spazi effettivi di libertà e di consapevolezza. Sarà il movimento reale a determinare quali saranno i percorsi possibili verso questo orizzonte. La scommessa delle rivoluzioni a venire, e per la quale vale la pena di impegnare la propria vita e la propria intelligenza, è che esse siano capaci di cancellare ogni potere centralizzato e oppressivo, di superare la forma stato e di diffondere il protagonismo diretto e l’autogoverno degli attori sociali; avendo piena chiarezza della totale inimicizia col capitalismo e i suoi meccanismi di ogni progetto di vita libera e piena, ed essendo consapevole che nessuna conquista rivoluzionaria è tale se coloro che lottano per trasformare la società non lottano, anche e nello stesso tempo, per trasformare sé stessi .