Fenomenologia del razzismo

Con una premessa generale (dialettica dell’estraneo) e un primo capitolo sulle società antiche diamo inizio ad un lavoro di riflessione sulla fenomenologia del razzismo nella storia umana. Esso proseguirà con una seconda parte, dedicata al medio-evo e alla società feudale, una terza parte sulla modernità ed una quarta parte centrata sul razzismo nella crisi della globalizzazione.

Sulla stampa e nei telegiornali l’aggressione alla coppia di Lanciano, in provincia di Chieti, (avvenuta nella notte fra sabato 22 e domenica 23 settembre 2018) viene descritta nella sua orrenda crudeltà. Ma non si fa cenno al fatto che a compierla siano stati 4 criminali “bianchi” e che alcuni di loro parlavano un italiano perfetto né al fatto che Carlo Martelli, il medico aggredito abbia dichiarato “io la pistola non me la compro. (…) Se ne avessi avuta una in casa, ci avrebbero ammazzato con quella”. Invece su questa vicenda hanno avuto risalto le dichiarazioni dei soliti noti: il “criminologo” Meluzzi punta il dito contro l’immigrazione incontrollata, la Meloni se la prende con la sinistra e Toti invoca una legge per la legittima difesa. Come se, appunto, la rapina l’avessero fatta quattro extracomunitari, protetti dai buonisti e dall’attuale legge sulla legittima difesa. 
In realtà i crimini sono in diminuzione da un decennio, la stragrande maggioranza delle violenze, anche quelle sessuali e domestiche, sono commesse da italianissimi bianchi, cattolici ed eterosessuali e in USA dove il commercio delle armi è libero una rapina così sarebbe finita con diversi morti. 
Ma tutti questi sono dettagli. 
Se non sono extracomunitari, meglio se neri, giornali e TG non riportano la nazionalità degli aggressori (o almeno non lo fanno con la stessa enfasi) e se gli aggrediti non sbavano di rabbia e addirittura pronunciano parole di saggezza, rara di questi tempi, la loro voce è di fatto censurata. Non fanno notizia. Ed è così oramai da anni. 
Giornali e TG mainstream (quelli con un più ampia diffusione, e con maggiore sintonia ideologica con chi comanda) stanno dentro l’onda nera e ne costituiscono, consapevolmente o meno, una colonna portante.

Dialettica dell’estraneo

Nelle comunità umane primitive in cui la carenza di risorse per la sopravvivenza era la regola, l’esperienza immediata della estraneità era collegata al pericolo di essere ferito o ucciso e giustificava, con la stessa immediatezza, il ferimento o l’uccisione dell’estraneo. La logica della sopravvivenza di clan soprattutto nell’economia da raccolta e da caccia rendeva necessaria l’eliminazione degli estranei, sia quelli che provenivano dall’esterno del clan che quelli che emergevano all’interno (malati, deformi, disabili). Il comunismo dei beni si limitava alla comunità ristretta del clan e la divisione del lavoro era sostanzialmente basata sul sesso, con le donne che riproducevano la specie e gli uomini che l’alimentavano raccogliendo e cacciando. 

Dove non vi era carenza di risorse e l’economia naturale non richiedeva una severa divisione dei ruoli, ove la natura, cioè, era talmente generosa da offrire senza sforzo alle comunità i mezzi di mantenimento, non esisteva la paura dell’estraneo. Vi sono testimonianze di comunità insediatesi in luoghi ove la presenza di flora e fauna specifiche garantivano abbondanza di risorse senza particolari sforzi e in cui vi era prevalenza, testimoniata dalla discendenza di tipo matriarcale, della riproduzione sulla produzione, dove vigevano riti di accoglienza dell’estraneo, salutato come testimone dell’umanità e addirittura della divinità. 

Con la crescita della popolazione umana si rende necessario stabilizzare la produzione ed il passaggio dall’economia di caccia all’economia da coltura segna una più complessa divisione del lavoro. I clan si uniscono in comunità più grandi e si scontrano con altre comunità per la conquista dei terreni più fertili e delle sorgenti d’acqua, ma anche per la conquista di prigionieri di guerra, destinati ad essere sottomessi come schiavi. L’estraneo può diventare, come l’animale da soma, un mezzo di produzione. E in realtà la schiavitù diventa la base dell’economia, della stratificazione sociale e della costruzione, attraverso lo scambio di crescenti eccedenze, di economie, sempre più potenti, di tipo mercantile, fino alla costruzione dei grandi Imperi, nell’Occidente ma anche in altre parti del mondo dove al modo di produzione mercantile si affianca il cosiddetto modo di produzione asiatico.

In Occidente la crisi delle società mercantili e dell’Impero Romano e l’emergere delle grandi religioni monoteiste fu il preludio di un processo di stabilizzazione della produttività e, di conseguenza, del modo di produzione: durante l’età di mezzo l’estraneo, nell’Occidente cristiano, fu soprattutto l’infedele, da sconfiggere nelle crociate (i mussulmani) o da emarginare nelle città (gli ebrei), ma non da rendere schiavo, piuttosto da convertire. Gli schiavi furono in gran parte sostituiti dai servi della gleba, che non erano più “bestia da soma” su cui il signore aveva il diritto di vita e di morte: avevano un’anima e dunque la possibilità di sposarsi, di fare figli a cui lasciare anche la sua piccola proprietà. 

Ma come resisteva, anche durante il modo di produzione feudale (e per altri versi nel modo di produzione asiatico), l’eccedenza produttiva che alimentava lo scambio commerciale, così, pur ridimensionata, la schiavitù dell’estraneo continuò, soprattutto dove più avanzati erano i flussi mercantili, in particolare nei Paesi Islamici dove i mercanti arabi potevano utilizzare un gran numero di schiavi africani. 

Con la scoperta del nuovo mondo ed i primi vagiti del capitalismo la schiavitù torno ai livelli raggiunti nell’antichità. Ma questa volta il tentativo, già presente nel pensiero greco, di stabilire l’esistenza, nella specie umana, di esseri superiori e inferiori, assume la veste scientifica della poligenetica, ovvero della esistenza di specie diverse di uomini, di vere e proprie razze. 

Il razzismo propriamente inteso è, in effetti, un prodotto della modernità: seppure in continuità con il senso di superiorità morale (e di sfruttamento pratico) dell’estraneo nelle società antiche, con il capitalismo esso si erge a sistema di pensiero ed entra, a pieno titolo, nella lotta tra le classi sociali. Come ogni aspetto del rapporto sociale nel corso della storia moderna si registrano avanzamenti in direzione di un suo superamento, quando l’abbondanza della produzione e la forza delle classi subalterne riesce ad ottenere una più equa redistribuzione delle ricchezze; e arretramenti, con il riemergere ciclico, parallelamente alle convulsioni del sistema capitalistico, della carenza di risorse e della conseguente ancestrale paura dell’estraneo. 

Superiorità morale del proprio popolo in epoca pre-capitalistica e superiorità generale della propria razza in epoca capitalistica sono strettamente legati alla divisione in classi della società: in questo senso il superamento del razzismo è necessariamente legato al superamento del bisogno e della paura della carenza, all’emergere di una economia del dono che, con la potenza assunta dal sistema macchinico nell’epoca del capitale, garantisca l’abbondanza, ritornando, con la consapevolezza dei millenni di preistoria di orrore, di guerre e di sfruttamento, al prevalere della riproduzione umana del corpo, degli affetti, della cultura, della natura sulla produzione della merce.

Le società antiche 

La schiavitù, come base del sistema produttivo è tipica del modo di produzione mercantile (e non di tutte le società antiche): legata alla necessità di produrre e vendere su larga scala e di organizzare i lavoratori senza alcun vincolo era giuridicamente giustificata dal diritto del più forte: potevano, infatti, diventare schiavi gli uomini che non pagavano i debiti, i bambini abbandonati, le persone catturate dai pirati, i prigionieri di guerra. Non c’era una vera e propria ideologia basata sulla distinzione etnica. Lo sviluppo dell’economia mercantile viveva, d’altro canto, una contraddizione. Da un lato, più cresceva il numero di schiavi più si faceva avanti l’esigenza ideologica di giustificarne ideologicamente la condizione, sulla base di una generica superiorità morale di certi popoli su altri. Dall’altro lato più le dimensioni delle grandi aziende agricole e minerarie aumentavano, più diventava dispendioso il mantenimento di un apparato repressivo permanente e costoso destinato a garantire la disciplina del lavoro. Per questo il culmine dello sviluppo dello schiavismo corrispose con l’inizio della pratica della liberazione degli schiavi da parte dei padroni che affidavano ai liberti la gestione dei fondi e delle attività tramite l’affittanza e successivamente il colonato. Così anche l’esigenza ideologica di giustificare lo schiavismo attraverso un pregiudizio morale di tipo etnico regredì nella storia antica, per riproporsi in maniera scientifica solo con la modernità.

Il modo di produzione asiatico

Nei paesi in cui si sviluppò il modo di produzione cosiddetto “asiatico”, lo Stato non nasceva solo dalla necessità di difendere militarmente le comunità aggregate ma anche di effettuare quei lavori pubblici necessari per aumentare la produttività sociale: dove, per esempio, l’irrigazione non poteva essere garantita da piccole infrastrutture, come succedeva in gran parte dell’Occidente, per sopravvivere la produzione della comunità-villaggio aveva bisogno di imponenti lavori idraulici, forniti centralmente. Caratterizzato dal potere assoluto del sovrano, dalla strutturazione per caste (embrioni delle classi sociali), dall’assenza di proprietà privata (la proprietà della terra era in genere statale, mentre l’usufrutto era di comunità), dai lavori pubblici statali in cambio dei quali tutto il surplus creato dalle comunità di villaggio era concentrato in opere tecnicamente improduttive, ma essenziali per la persistenza della società (come piramidi, valli difensivi, grandi muraglie ecc.) il modo di produzione “asiatico”, nonostante l’aggettivo, non fu limitato al Medio-Oriente o all’Oriente. 

E’ vero, però, che mentre in Occidente, ed in particolare in Grecia e a Roma, questa formazione rappresenta una fase di transizione “breve”, dalla società gentilizia e “tribale” e dalle forme antiche di proprietà comune a quella mercantile, in cui la proprietà privata è egemone, ad Oriente essa resiste per millenni “sfociando” spesso direttamente in forme di società feudale: in Mesopotamia e in Egitto, in Persia e in India (con l’invasione degli Arya che trattavano i popoli preesistenti come schiavi, dando origine, così, al sistema delle caste), in Cina ma anche nella “nostra” Etruria, o nei regni dell’Africa Mediterranea e nell’impero Atzeco in America.

La rapida crisi in Occidente del modo di produzione “asiatico” e l’avvio del modo di produzione mercantile e schiavistico fu probabilmente causata dalle sempre più favorevoli condizioni ambientali locali che permisero non solo il decentramento ed il frazionamento delle attività infrastrutturali per rendere produttiva la terra, ma anche una vera e propria esplosione demografica: in Attica e poi, soprattutto a Roma, la crescita della popolazione fu impetuosa come impetuoso fu lo sviluppo delle forze produttive che condusse rapidamente alla proprietà privata delle terre e al superamento dei rapporti interpersonali di divisione del lavoro. 

Nelle società in cui prevaleva il modo di produzione asiatico la schiavitù, contrariamente a quel che comunemente si pensa, era una condizione limitata e marginale. 

L’Antico Egitto

Anche sull’Antico Egitto uno dei luoghi comuni più diffusi riguarda l’uso degli schiavi. In realtà, furono i racconti dei viaggiatori greci a contribuire al diffondersi dell’idea che l’economia egizia si basasse sugli schiavi: essi sostenevano che la costruzione delle piramidi sarebbe stata impensabile senza la massiccia partecipazione degli schiavi. E così la Bibbia che, a tal proposito, narra di un gran numero di Ebrei utilizzati per la costruzione delle piramidi. Però la presenza degli Ebrei in Egitto, citata dalla Bibbia, è molto posteriore. Quei cosiddetti Ebrei, in realtà, non erano altro che parte del grande coacervo di popolazioni nomadi asiatiche (popoli pastori) vissute nel paese del Nilo. 

In realtà durante l’Antico Regno (2686-2173 a.C.), era necessaria la partecipazione volontaria dell’intera popolazione per costruire canali d’irrigazione, grandi infrastrutture o opere militari. Gli unici completamente privi di libertà erano i prigionieri di guerra, a cui venivano affidati i lavori domestici o i pesanti lavori in miniera: le fonti documentali dell’Antico Regno non parlano dell’esistenza di schiavi per la costruzione di tali monumenti, bensì fanno riferimento alle corvée cui erano sottoposti i contadini quando il Nilo inondava le loro terre. La costruzione di opere pubbliche per il mantenimento dello Stato era un compito che spettava a tutti, anche se la classe agiata se ne liberava dietro lauto compenso. Certo è che questa forma di lavoro forzato veniva visto dai popoli pastori come una forma di schiavitù, ma le caratteristiche erano molto diverse.  

La schiavitù propriamente detta si diffonde in Egitto a partire dal Nuovo Regno quando – in seguito alla conquista di nuovi territori, l’afflusso di prigionieri di guerra e il contestuale aumento della produttività – si sviluppa una vera e propria economia mercantile. Ai prigionieri di guerra si affiancarono le persone che, per motivi legati alla povertà o per debiti, non avevano sufficienti mezzi di sussistenza, potevano essere venduti come schiavi per un certo periodo di tempo. Solitamente, questi ricorrevano alla protezione di un tempio per lavorare e prestare lì i loro servizi. Il tempio era obbligato a mantenerli e a proteggerli in cambio del loro lavoro. 

La Grecia Antica

Nella Grecia antica gli schiavi erano alla base del sistema economico e produttivo, soprattutto dopo l’VIII sec. a.C. con la diffusione dell’uso dei metalli e l’espandersi dei commerci. 

Gli schiavi erano prigionieri di guerra, provenienti dai popoli stranieri, chiamati “barbari” “barbari” (balbuzienti) perché parlavano un’altra lingua, avevano costumi, religioni, istituzioni diverse e vivevano al “limite” del loro mondo. Ad Atene ogni mese si potevano vendere e comprare schiavi nell’agorà (la piazza del mercato). Nelle città greche il loro numero raggiungeva il 25% e talora perfino il 50% della popolazione. 

La pratica della schiavitù era così importante per il funzionamento della società greca, che un grande filosofo come Aristotele cercò di trovarle una giustificazione che non fosse legata alla affermazione della legge del più forte. Per il filosofo, alcuni uomini (in particolare i barbari, ossia i non Greci) sono per natura inferiori ed è quindi lecito che siano asserviti a chi è loro superiore. Egli scriveva infatti: “esistono nella specie umana individui inferiori agli altri, così come il corpo lo è rispetto all’anima o gli animali rispetto all’uomo […]. Tali individui sono destinati dalla stessa natura alla schiavitù, perché per loro non esiste nient’altro di meglio che obbedire”. 

Oltre ai prigionieri di guerra, masse enormi di persone e addirittura intere popolazioni, potevano diventare schiavi anche i bambini abbandonati alla nascita, o gli uomini che non pagavano i debiti. Per l’economia della Grecia antica, nella quasi totale assenza di macchine, erano necessarie molte braccia: gli schiavi servivano appunto per svolgere le più svariate mansioni, dai lavori nelle miniere a quelli domestici. Gli schiavi erano considerati “merce”; essi, quindi, venivano venduti nei mercati.

Roma e l’impero universale

Ma fu a Roma e nell’Impero Romano l’apoteosi del modo di produzione basato sulla schiavitù. La città eterna raggiunse dimensioni enormi (fino a 2 milioni di abitanti) con l’espansione del dominio imperiale e la sconfitta di popolazioni che venivano sottomesse e molto spesso rese schiave. Soltanto a partire dal Tardo Impero con la conclusione delle guerre di conquista, l’ascesa al potere di imperatori non italici, la diffusione del Cristianesimo e la concessione della cittadinanza romana a molti popoli barbari  in seguito al loro arruolamento nelle legioni romane, oppure al pagamento di tributi, il fenomeno della schiavitù cominciò a declinare e poi estinguersi progressivamente.

Dopo essere stati venduti al mercato (il più importante fino all’inizio del I secolo a.C. fu quello dell’isola di Delo, dove secondo Strabone si trattavano 10 000 individui al giorno), gli schiavi diventavano oggetti a disposizione assoluta del loro padrone, che spesso li marchiava a fuoco come riconoscimento della sua proprietà. Non avevano dignità giuridica, non potevano possedere né beni di proprietà e neanche una propria famiglia, dal momento che il loro matrimonio, anche se raggiunto con il consenso del padrone, si considerava come un semplice concubinato ed i figli nati da esso erano di proprietà del padrone. Gli schiavi eseguivano ogni tipo di attività lavorativa immaginabile per l’epoca nelle domus  ville e nelle fattorie (agricoltore, allevatore di animali, falegname, giardiniere, domestico, muratore); se erano particolarmente colti potevano essere impiegati come insegnanti di lingua (soprattutto il greco) o, nel caso di persone molto calme e fidate, come precettore dei bambini. O ancora, nelle professioni specializzate: mimi e cantori, artigiani, architetti, atleti, contabili, intellettuali (filosofi, poeti, storici, eruditi in genere). Nella Roma imperiale migliaia di schiavi assicuravano i servizi molto diffusi per le cure estetiche ed il benessere fisico della persona (addetti al bagno, manicure e pedicure, massaggiatori, prostitute, truccatrici, guardarobieri, maggiordoni).  Ovviamente, per gli schiavi esistevano mansioni di basso livello, come spurgare le fognature, buttare la spazzatura, allevare i porci e la cessione alle scuole di gladiatori rappresentava una vera e propria condanna a morte. 

Alla base dell’abbondanza di risorse della Città Eterna e delle città minori dell’epoca c’era il duro lavoro nei latifondi, militarmente organizzato per una produzione su larga scala, e l’inferno delle miniere. Gli schiavi utilizzati per scopi direttamente produttivi erano spesso quelli provenienti dall’occidente barbarico.

Gli schiavi affrancati (manomessi) dai loro padroni venivano invece chiamati liberti. Alcuni di questi, specie nell’età imperiale, fecero sorprendenti carriere: i più intraprendenti si gettarono in speculazioni lucrose, accumulando in fretta grandi capitali per poi dedicarsi all’usura. I liberti più abili e colti posero le proprie capacità nella burocrazia al servizio degli imperatori come segretari, consiglieri, amministratori. 

Nell’antica Roma le leggi che regolavano la condizione della schiavitù confermano la mancanza di una vera e propria base ideologica di tipo etnico o razziale: le modalità per cui si diventava o si rimaneva schiavi erano legate sostanzialmente ed anche giuridicamente alla legge del più forte, come già nelle altre civiltà antiche di tipo mercantile. Diventavano schiavi non solo i non romani fatti prigionieri di guerra dai romani, ma anche cittadini romani o stranieri catturato dai pirati, gli individui condannati a pena giudiziaria comportante la perdita definitiva della libertà personale e quelli che non restituivano I propri debiti, e che divenivano proprietà del creditore in seguito alle leggi ferree che nell’età repubblicana tutelavano i creditori. I bambini potevano nascere schiavi, se nati da una madre schiava in una domus, oppure diventarlo se venduti dal padre in virtù della sua condizione di pater familias o se abbandonati in campagna, esposto alle intemperie (chi li trovava aveva il diritto di allevarli e venderli come schiavi). 

Le stime degli storici riguardo alla percentuale di schiavi nell’Impero Romano variano dal 15% al 30% dell’intera popolazione ed evidenziano come l’economia romana, specie nell’età imperiale dipendesse pesantemente dall’utilizzo del gran numero di schiavi ottenuti con le guerre di conquista. In vero non fu quella romana la civiltà classica più condizionata dallo sfruttamento della schiavitù come probabilmente lo fu la civiltà spartana, in cui il numero di schiavi (o iloti) superava il numero dei cittadini spartani in una proporzione di circa sette a uno.

Il fulmineo successo della schiavitù di massa nel mondo romano si spiega con la necessità della produzione su larga scala richiesta dalle enormi dimensioni raggiunte dai domini di Roma dal II secolo a.C. in poi. Un’organizzazione economica di miriadi di piccole proprietà, tipiche della prima età repubblicana (V-III secolo a.C.) avrebbe comportato mediazioni laboriosissime. Invece, la disponibilità massiccia, immediata e incondizionata di milioni di esseri umani da mettere al lavoro permetteva di produrre e vendere su larga scala e di organizzare i lavoratori senza alcun vincolo dovuto alle loro esigenze umane, se non quello basilare della loro sopravvivenza. 

L’esercito degli schiavi consentiva, quindi, la gestione a costi minimi dei latifondi pastorali ed estensivi e la gestione intensiva delle ville  che secondo alcuni storici è la più efficiente e razionale forma produttiva che l’economia romana abbia mai inventato. C’era però una falla nel sistema: il mantenimento della disciplina nelle grandi aziende servili comportava un apparato repressivo permanente e costoso, economicamente e psicologicamente: si capisce allora come con il passare del tempo si facessero più frequenti le manomissioni (la liberazione di schiavi da parte dei padroni, che diventavano così liberti), fino ad arrivare da parte dei padroni alla gestione più distaccata dei loro fondi tramite l’affittanza a lavoratori liberi, che si consolidò nell’istituzione del colonato. 

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