Dialettica dell’estraneo

Giosuè Bove

Nelle comunità umane primitive, nei luoghi dove la carenza di risorse per la sopravvivenza era la regola, l’esperienza immediata della estraneità si collegava al pericolo di essere feriti o uccisi; e legittimava perciò, con la stessa immediatezza, il ferimento o l’uccisione dell’estraneo. Più in generale, nell’economia da raccolta e da caccia, la sopravvivenza del clan rendeva pressoché obbligatoria l’eliminazione degli “estranei” e dei “diversi”, ovvero le bocche in più da sfamare e i corpi inutili all’attività comune. Così sia per quelli che turbavano gli equilibri venendo dall’esterno e sia per quelli che li turbavano dall’interno (malati, deformi, disabili), il destino era quasi sempre segnato. Il comunismo dei beni si limitava alla comunità ristretta del clan, e la divisione del lavoro era sostanzialmente basata sul sesso, con le donne che riproducevano la specie e gli uomini che l’alimentavano raccogliendo e cacciando. 

Tuttavia, anche in quell’epoca lontana non dappertutto l’estraneità veniva rigettata. Dove non vi era carenza di risorse e l’economia naturale non richiedeva una severa divisione dei ruoli – ove la natura, cioè, era talmente generosa da offrire senza sforzo alle comunità i mezzi di sostentamento – non esisteva la paura dell’estraneo. Vi sono testimonianze che parlano di comunità insediatesi in luoghi ove la presenza di flora e fauna specifiche garantivano abbondanza di risorse senza particolari sforzi, e in cui vi era prevalenza, testimoniata dalla discendenza di tipo matriarcale, della riproduzione sulla produzione: lì vigevano riti di accoglienza dell’estraneo, salutato come testimone dell’umanità o addirittura della divinità. 

In seguito, quando la crescita della popolazione umana rese necessario stabilizzare la produzione e si avviò il passaggio dall’economia di caccia all’economia da coltura, si determinò una più complessa divisione del lavoro. I clan si unirono in comunità più grandi e si scontravano con altre comunità per la conquista dei terreni più fertili e delle sorgenti d’acqua, ma anche per procurarsi prigionieri di guerra, destinati ad essere utilizzati come schiavi. L’estraneo-prigioniero di guerra diveniva simile agli animali da soma: un mezzo di produzione. E in effetti la schiavitù divenne la base dell’economia antica, caratterizzata largamente dall’autoconsumo ma anche segnata dallo scambio di eccedenze crescenti. Si svilupparono economie sempre più potenti e pratiche di tipo mercantile, fino alla costruzione dei grandi Imperi, nell’Occidente ma anche in altre parti del mondo.

In Occidente la crisi delle società agrarie-mercantili comprese nell’Impero Romano e l’emergere delle grandi religioni monoteiste fu il preludio di un processo di stabilizzazione della produttività e, di conseguenza, del modo di produzione, che divenne feudale. In quel millennio circa che va sotto il nome di Medioevo, l’estraneo, nell’Occidente cristiano, fu soprattutto l’infedele, da sconfiggere nelle crociate (i musulmani) o da emarginare nelle città (gli ebrei). Ma la regola non era più quella di renderli schiavi, si trattava piuttosto di convertirli. In realtà, gli schiavi venivano sostituiti dai servi della gleba, che non erano più “bestie da soma” su cui il signore aveva il diritto di vita e di morte: avevano un’anima, e dunque la possibilità di sposarsi e fare figli, cui lasciare la loro piccola proprietà. 

Ma come resisteva, durante il modo di produzione feudale, l’eccedenza produttiva che alimentava lo scambio commerciale, così, pur ridimensionata, la schiavitù dell’estraneo continuò, soprattutto dove più avanzati erano i flussi mercantili. La ritroviamo, in particolare, nei Paesi Islamici, dove i produttori e i mercanti arabi potevano utilizzare un gran numero di schiavi africani. 

Con la conquista del Nuovo Mondo e i primi vagiti del capitalismo, la schiavitù torno ai livelli raggiunti nell’antichità. Ma questa volta il tentativo, già latente nel pensiero greco, di stabilire l’esistenza, entro la specie umana, di esseri superiori e inferiori, assunse la veste inedita della poligenetica, ovvero il discorso presunto scientifico sulla esistenza di specie diverse di uomini, di vere e proprie razze. 

Il razzismo propriamente inteso è dunque, a ben vedere, un prodotto della modernità. Seppure in continuità con la tesi della inferiorità morale dell’estraneo nelle società antiche (teoria che ne facilitava lo sfruttamento pratico), l’incubazione dell’età moderna nei secoli XVI e XVII e poi la nascita vera e propria del capitalismo (a partire dal secolo XVIII) ridisegnarono complessivamente le nozioni di “identità” ed “estraneità”, ricollegandole, a pieno titolo, allo sfruttamento della forza-lavoro e al contrasto tra le classi sociali. Le concrete condizioni di vita degli schiavi e dei proletari (la seconda figura gradualmente subentrava alla prima) tendevano a migliorare quando l’abbondanza della produzione e la forza delle classi subalterne riusciva ad ottenere una più equa redistribuzione delle ricchezze; peggioravano sensibilmente, invece, con il riemergere, nello stesso ciclo capitalistico, della carenza della risorse e della conseguente ancestrale paura dell’estraneo. 

Superiorità morale del proprio popolo in epoca pre-capitalistica e superiorità generale della propria razza in epoca capitalistica sono, in sintesi, strettamente collegati alla divisione in classi della società. Ed è per questa ragione che il superamento del razzismo è oggi necessariamente legato al superamento del capitalismo. Più precisamente, esso va in parallelo col superamento della penuria e della paura sociale che si genera con la insufficienza delle risorse. Ma noi che viviamo nel XXI secolo siamo già nell’epoca dell’oggettivo superamento della penuria: la potenza raggiunta dal sistema macchinico del capitalismo maturo garantisce (può garantire) davvero l’abbondanza. E però per tantissime persone la vita continua ad essere segnata da una insufficienza reale. Il problema è che il capitalismo riproduce continuamente le distorsioni sociali delle epoche passate, ma stavolta senza scusante alcuna. 

Per dirla in breve, il punto di autentico scandalo storico è che la miseria di oggi, quella che segna l’esistenza di milioni, anzi miliardi di uomini e donne, non è più un qualcosa di inevitabile. Si sono, infatti, compiutamente realizzate le condizioni oggettive per arrivare ad una generalizzata “economia dell’abbondanza e del dono”. Siamo perciò a un bivio reale, e la scelta dipende tutta da noi esseri umani: possiamo scegliere di continuare nello stesso solco tracciato da millenni di preistoria e di orrore, di guerre e di sfruttamento; oppure, al contrario, possiamo scegliere di far prevalere, sulla produzione della merce, la riproduzione umana del corpo, degli affetti, della cultura e della natura. Ora, diversamente dal passato, vi sono tutte le premesse materiali per farlo.

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