Appello promosso da: Associazione Ya-basta – Scisciano (NA), Associazione “Melagrana”, Associazione Nova Koiné – Marigliano (NA), LEF, rivista on-line – Napoli, novembre 2015
È possibile disinnescare questa guerra? Questa crudele e strana guerra asimmetrica che semina lutti innumerevoli nel Vicino Oriente, in Africa, in Europa, nell’area del Pacifico? Forse è possibile. Ma per prima cosa occorrerà sottrarsi alla logica del “chi ha cominciato per primo”. Americani, francesi, inglesi, spagnoli, che hanno vissuto sulla loro pelle le stragi assassine di New York, Parigi, Londra, Madrid, hanno perfettamente ragione a dire che sono stati crudelmente colpiti. Ma hanno perfettamente ragione anche le popolazioni arabe e maghrebine, e musulmane in genere: pure loro sono state bombardate senza misericordia sia dagli jihadisti, sia, soprattutto, dagli eserciti occidentali.
L’inizio della carneficina la si può scegliere a piacere: l’undici settembre di New York, o l’invasione americana dell’Afghanistan, o la prima guerra del Golfo del 1991, o la guerra Iran-Iraq degli anni ’80 con il coinvolgimento diplomatico e logistico di tutte le grandi potenze, o la conquista dell’Iraq ad opera di americani e inglesi, oppure il continuo confronto militare tra Israele, Palestina e Paesi arabi, oppure le stragi di Mogadiscio e di Nairobi… E per sovrapprezzo si potrebbe anche risalire più indietro, al colonialismo e alla decolonizzazione malata. Il fatto è che davvero non si va da nessuna parte se la questione diventa stabilire chi abbia ucciso per primo.
E allora?
Nelle guerre del Novecento, che coinvolgevano Stati o embrioni di Stati contro altri Stati, si capiva con chiarezza chi erano i contendenti, cosa volevano, come si poteva (forse) metterli attorno ad un tavolo. Si può ancora procedere con ragionevole speranza di successo in tale direzione? Anche con questa guerra sporca e intermittente? No. La tradizionale via diplomatica appare già impraticabile in partenza. E non può essere in nessun modo risolutiva.
Ma allora?
Alcuni dicono che occorre semplicemente aspettare la fine della vicenda, quando le operazioni militari dei più forti, e cioè le potenze occidentali, avranno fatto per intero il proprio lavoro. E spingono con grande enfasi per un deciso intervento “di terra”. Se si cancella il Califfato dell’Isis, dicono costoro, la questione si risolve da sé.
Certo, se i curdi vengono aiutati a liberare Mosul dalla tirannia degli jihadisti si determinerebbero almeno tre cose buone: si metterebbe in sicurezza il nascente (finalmente!) Stato curdo, almeno nell’ambito dei territori ex-siriani e ex- iracheni, abitati da quel popolo fin dalla notte dei tempi; si sottrarrebbero diversi milioni di persone alla cappa di piombo del potere jihadista; si eliminerebbe una formidabile enclave logistica della jihad internazionale.
Ma poi, quando i combattenti feroci dell’Isis non avranno più un loro Stato, davvero la guerra, questa guerra strana e crudele, finirà? E perché mai? Il Califfato di Raqqua e Mosul ha meno di un anno e mezzo di vita; e però le stragi e i lutti si succedono da almeno due decenni. Al-Quaeda non aveva alcun simulacro di Stato territoriale, era un semplice “Califfato virtuale”; ma ha mantenuto aperto lo scontro per anni e anni…
Il punto è che questa guerra è storicamente inedita non solo per le sue modalità, costituite soprattutto di stragi e di interventi espliciti e “coperti” delle forze regolari e delle intelligence degli Stati; e neppure è inedita solo per il suo andamento, fatto di episodi circoscritti e discontinui. E’ una guerra del tutto nuova proprio per il carattere di “scontro di civiltà” che tende obiettivamente ad assumere. La linea di frattura, e la conseguente linea di scontro, non ha bisogno di un luogo geografico per definirsi. O meglio: tende a definirsi ovunque, in tutti i luoghi.
Ma se le cose stanno così, e a ben vedere stanno proprio così, quello che davvero bisogna fare è contrastare la guerra non dal lato della guerra, bensì dal lato del suo terreno di coltura. E lo humus di coltura di questa guerra si situa, per un verso, nella pratica insufficiente dei diritti giuridici in larghissime parti del mondo; ma sta anche, per un altro verso, e forse soprattutto, nelle spaventose diseguaglianze di condizioni di vita tra le varie aree del pianeta; e s’annida, infine, per un terzo verso ancora, nella insufficiente autorappresentazione culturale degli esseri umani come umanità complessiva.
È un discorso astratto? Che non fa i conti con quello che concretamente sta avvenendo? Al contrario: è l’unico discorso sensato di fronte a dinamiche costitutivamente insensate.
Ma cosa può significare, in termini comprensibili, intervenire sul “terreno di coltura”, sulle ragioni storiche di fondo che alimentano questa lunga condizione di guerra?
Sul piano dei diritti giuridici da garantire a tutte le persone di questo pianeta, l’azione decisiva non può che spettare all’Onu. Niente di trascendentale, per carità. Si tratterebbe “semplicemente” di bandire dal consesso civile tutti paesi che, per esempio, non hanno sottoscritto la Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici del 1976, o che l’hanno sottoscritta mantenendo una riserva giurisdizionale talora sulle libertà politiche, talaltra sull’eguaglianza fra uomini e donne, e talaltra ancora sulla pari dignità, di fronte allo Stato, delle diverse religioni.
Certo, si tratta di un numero considerevole di paesi. Ma: o l’Onu mette all’ordine del giorno una vera progressione in avanti sui diritti civili e politici o si condanna al fallimento. Tanto vale che non ci sia neppure una Organizzazione internazionale degli Stati…
C’è poi il secondo aspetto, quello di arrivare alla tendenziale uguaglianza delle condizioni di vita in tutte le parti del pianeta. Le disparità sono sotto gli occhi di tutti: dal valore del lavoro (che in alcune zone vale abbastanza, in altre vale poco, in altre vale niente) all’articolazione dei servizi di cura alle persone (che esistono in maniera più che accettabile nei paesi ricchi e sono pressoché inesistenti nei paesi più poveri). Si può rispondere: è la storia. Le cose sono andate così. Non c’è niente da fare. Ma non è una buona risposta.
Le cose che vanno per il verso sbagliato bisognerà pure indirizzarle, una buona volta, nel verso giusto. Anche qui: niente di trascendentale. Si tratta, ad esempio, di un atto che dovrebbero fare gli Stati ricchi in tempi rapidissimi: la cancellazione del debito, inesigibile di fatto, che grava sulle economie dei paesi poveri; e, accanto a questo, una moratoria internazionale sul copyright dei brevetti scientifici e tecnologici.
Quanto al terzo aspetto, il più urgente nell’immediato, bisogna richiedere a tutte le bocche che “hanno un peso quando parlano” – e cioè i capi dei media, i capi partito, i capi religiosi, gli artisti, eccetera – parole propriamente umane. Chi blatera di “bastardi islamici” (e ovviamente non si riferisce solo agli jihadisti, ma a tutta una comunità) ripropone l’identico razzismo col quale la “supponenza bianca” usava il termine “giudeo” o “nigger” per sottolineare la “inferiorità dell’altro”. Propone, in sostanza, una visione rimpicciolita del mondo, abitato da civilizzati e barbari, evoluti e involuti, e contrappone gli uni agli altri. Ma la medesima cosa la fa chi predica in una moschea dicendo che il mondo si divide in figli di Allah e “infedeli”, intendendo, anche qui, con la parola “infedeli”, una condizione di sostanziale inferiorità e di impurità morale.
C’è un razzismo bianco che purtroppo è assai diffuso in Occidente; e c’è una intolleranza settaria dentro la cultura islamica, che pure è diffusa tra le persone normali, quelle che rifiutano con orrore la logica della jihad ma, allo stesso tempo, si tengono lontani dal proclamare la uguaglianza reale, anche sul piano morale ed etico, di tutti gli esseri umani, proprio in quanto “esseri umani”.
In breve, disinnescare la guerra implica agire nell’immediato in tre direzioni, contemporaneamente: 1) bandire dalla comunità internazionale i paesi che non garantiscono i diritti civili fondamentali, senza badare agli inconvenienti economici, per esempio sul piano dei commerci e dell’approvvigionamento energetico, che ne potrebbero derivare; 2) cancellare il debito dei paesi poveri e arrivare a una moratoria almeno decennale sui copyright dei brevetti; 3) chiedere conto, ingaggiando una battaglia culturale e politica senza tentennamenti, delle parole inumane che vengono proferite con troppa facilità anche da coloro che premettono, e magari lo pensano davvero, di volere la pace.
Ma esistono i soggetti per fare queste cose? Certo che ci sono: l’Onu, gli Stati, gli organismi internazionali, i gruppi dirigenti dei media, dei partiti, delle religioni. Ma sarebbe ingenuo pensare che questo insieme variegato di soggetti assumerà spontaneamente la logica del “disinnesco della guerra” e opererà convinto per la salvaguardia dei diritti, la promozione dell’eguaglianza delle condizioni sociali, e l’affermazione culturale dei principi dell’universalismo umano. Essi debbono essere, invece, costretti a fare i gesti opportuni e a proferire le parole necessarie.
E qui il tema diventa quello del nostro impegno, dell’impegno di ciascuno di noi, sia credente o no, cristiano o islamico, bianco o nero. A fronte delle complesse ragioni che alimentano la guerra e la contrapposizione di civiltà, siamo chiamati tutti ad avviare una decisiva iniziativa, di spessore storico, per una autentica civiltà umana.
In sintesi: occorre dar vita, ovunque sia possibile, e tentando un coordinamento internazionale, ad una pressione continua, in termini di movimenti e opinione pubblica, per “disinnescare la guerra” e richiedere con forza, a chi può concretamente decidere, le cose davvero necessarie a proposito di diritti civili, di uguaglianza sociale e di dignità universale delle persone. Il che significa anche praticare, con determinazione, tutte le azioni necessarie, dal boicottaggio verso i paesi che calpestano i diritti civili e politici alla contestazione delle istituzioni internazionali che vivono sul debito dei paesi poveri al contrasto attivo verso i troppi “fomentatori di odio” che ci stanno intorno.