di Rino Malinconico
Napoli
Carissimi/e,
mi pare che i tempi che stiamo vivendo confermino appieno il giudizio comunemente formulato qualche anno fa: ciò che manca nelle propaggini sempre più ridotte e sfilacciate di quello che fu il movimento operaio del Novecento attiene alla cultura ancor più che alla politica in senso stretto. Sono i fondamenti teorici di fondo ad essere drammaticamente venuti meno.
Ma non si fraintenda: i fondamenti teorici di cui parlo non riguardano principalmente (anche, ma non principalmente) i contenuti della elaborazione di Marx e dei teorici marxisti più innovativi venuti in seguito; si riferiscono invece all’atteggiamento metodologico, al modo di porsi di fronte alla realtà che ci circonda. Detto in una battuta, ad essere sempre più assenti sono la pratica del pensiero dialettico e l’assunzione consapevole del principio euristico della complessità.
È venuta meno l’idea che l’identità autentica di una cosa coincida con la sua storia; ed è venuta meno la visione olistica dei processi storici come pluralità di fattori che interagiscono tra loro, e che non possono essere seriamente indagati isolandoli l’uno dall’altro. Non c’è più l’attitudine, che nel Novecento era sfregiata dal dogmatismo e però esisteva, a guardare il mondo come un qualcosa che si muove per la spinta delle sue interne contraddizioni e che perciò possiede una propria dinamica reale, in gran parte indipendente da noi che ne parliamo. E non c’è, simmetricamente, neppure l’abitudine a considerare con rispetto le nostre medesime parole, in quanto possono divenire anch’esse “dinamica reale”, entrando in sintonia col movimento complessivo delle cose e cooperando al suo stesso andamento.
In aggiunta c’è poi tutto il resto: il vuoto di strategia politica rispetto alla fase, l’incapacità di innovare lessici e forme della comunicazione, la tendenza a trasformare continuamente le opinioni differenti in contrapposizioni irrisolvibili. Questi limiti hanno raggiunto, qui in Italia ma non solo in Italia, livelli parossistici, in un’altalena avvilente di farsa e dramma. Per non parlare della incapacità, davvero stupefacente, di rendersi conto del consumarsi inesorabile di determinate esperienze organizzative, persino quando sono già abbondantemente e limpidamente consumate.
Ma lo ripeto: le insufficienze politiche e la mancata autoconsapevolezza di quello che effettivamente si è, ancorché produttrici di guasti innumerevoli e largamente irrimediabili, sono il meno dei problemi che noi abbiamo davanti. E intendo con quel “noi” tutti coloro che partecipano ai tentativi disagevoli e incerti di traghettare nel nuovo secolo, sia sul piano teorico che sul piano pratico, ciò che può essere ancora utile dell’esperienza rivoluzionaria del Novecento.
Per arrivare rapidamente al sodo, io penso che la questione decisiva sia quella di cominciare, e irrobustire nel tempo, una battaglia culturale per la dialettica, rifondando contemporaneamente la cultura materialistica della complessità del reale. I contenuti di questa battaglia e di questa rifondazione si sostanziano linearmente nell’analisi del nuovo capitalismo della totalizzazione e nella valorizzazione dei nuovi termini del conflitto sociale. Sono soprattutto i conati di futuro che già vivono dentro la stratificazione costruita dalla totalizzazione del rapporto di capitale, e nelle contraddizioni che essa genera, il nocciolo che dobbiamo enucleare.
Ma qual è lo strumento più utile, oggi come oggi, per contribuire ad una simile impresa?
Lo avevamo individuato bene: una rivista on-line, LEF, che nel suo stesso acronimo di liberté, egalité, fraternité ripigliasse la speranza grandiosa e irrealizzata della modernità. Una rivista, cioè, che, per un verso, tesaurizzasse l’elaborazione sulla totalizzazione e sul marxismo umanistico nata dentro l’esperienza della vecchia rivista “Officina” (anni ’80 a Napoli) e di recente venuta faticosamente a ulteriore e più ampia precisazione; che, per altro verso, fosse capace di misurarsi con le riflessioni più innovative degli ultimi decenni riguardo la condizione umana in senso lato; e che, per un terzo verso ancora, sapesse soprattutto interloquire con la generazione già anagraficamente oltre il Novecento e pienamente interna al globalismo di contenuti, linguaggi e tematiche di questo secolo XXI.
LEF l’abbiamo dunque avviata come possibile strumento di lavoro, come proposta di intreccio attivo tra: 1) un rivolo specifico di “marxismo eretico” che usciva dal Novecento; 2) talune elaborazioni critiche sulla condizione umana di provenienza culturale non marxista; 3) i contenuti inediti e le nuove modalità espressive che già premono in questo avvio di secolo. Lo sviluppo e l’intreccio strettissimo di questi tre elementi – così ci siamo detti all’inizio – poteva indicare a noi per primi, ma forse anche oltre noi, il possibile cammino, nel mondo nuovo che abbiamo davanti, degli ideali che la modernità ha solamente promesso e non realizzati: la consapevolezza del sé, la fratellanza umana e la uguaglianza sociale.
Io credo che sarebbe un vero peccato disperdere quella intenzione e abbandonare sul nascere il tentativo, e reputo anzi che LEF dovrebbe essere rilanciata in maniera sistematica e convinta. Al di là della nostra estrema esiguità e della nostra spensierata ininfluenza, c’è davvero bisogno di uno strumento con quelle caratteristiche di fondo. La battaglia culturale è decisiva, infatti, per qualsivoglia ragionamento di contenuto, anche per le analisi e le proposte immediatamente politiche.
Un solo esempio a tal proposito, che traggo dalle ultime vicissitudini della vicenda greca.
Dopo la sconfitta obiettiva del coraggioso braccio di ferro con l’Unione Europea, Tsipras e Syrizia hanno preso atto della sostanziale impossibilità di praticare una rottura unilaterale positiva col sistema-euro (e su questo valgano le considerazioni già pubblicate su LEF in estate), e stanno provando a riorganizzarsi su un terreno che sarà inevitabilmente meno avanzato di prima, qualunque sia l’esito elettorale di domenica prossima. Meno avanzato perché il condizionamento dei fattori esterni sarà comunque più stringente e perché le classi popolari sconteranno ancora per un certo tempo l’effetto disgregante della battaglia persa.
Ma non è della Grecia in sé che voglio parlare. Ai fini del ragionamento qui proposto è molto più utile considerare la lettura che, dentro e fuori dalla Grecia, hanno dato degli ultimi avvenimenti taluni rispettabili militanti politici schierati dalla parte del proletariato.
Non mi riferisco, è bene precisarlo, alle critiche di principio e per partito preso delle formazioni inguaribilmente dogmatiche, che credono di essere ancora in pieno Novecento e ritengono se stesse la continuazione, purtroppo sfortunata per i tempi toccatagli da vivere, del vecchio Partito bolscevico. Esse non aspettavano altro che la sconfitta di Tsipras e Syrizia per ricavarne non una riflessione sui possibili errori specifici, che sicuramente possono esserci stati, ma proprio l’invariabile insegnamento-principe dell’identità politico-teorica che le caratterizza, e cioè: 1) che la rivoluzione è una cosa rivoluzionaria; 2) chi non è rivoluzionario non può farla; 3) non potrà mai essere un rivoluzionario e non farà mai la rivoluzione chiunque non riproponga l’identica cosa che circa cent’anni fa si è fatta in Russia, cominciando con l’infilare in ogni proprio discorso almeno 130 volte la parola “comunismo” e preparandosi psicologicamente a un incipiente scontro finale e risolutivo con l’insieme delle classi dominanti nazionali e internazionali, a partire dagli Stati Uniti d’America…
Neppure mi riferisco alle formazioni anarchiche o para-anarchiche, per le quali conta il gesto ribelle che si attiva nelle piazze e che contrappone frontalmente la “soggettività rivoluzionaria” (si autodefinisce essa stessa come tale, e questo è sufficiente) e l’insieme di tutto ciò che è organizzativamente e politicamente altro da quella: i partiti quali che siano, le istituzioni quali che siano, i governi quali che siano. Tali formazioni avevano già convintamente sputato su Tsipras e Syrizia nel pieno del loro scontro con l’Europa, e ciò perché perdevano tempo ad andare a Berlino o Francoforte o Bruxelles invece di proclamare senza indugio la rivoluzione in Grecia…
Per quanto politicamente contigue a noi, queste aree politiche, tanto i dogmatici quanto gli anarchici, restano molto distanti sul piano culturale. Lo sono, ancor prima di quello che dicono, proprio per il fatto che sono strutturalmente incapaci di confrontarsi col presente capitalistico di oggi e con la storia reale del movimento d’operaio. Con loro è difficilissimo interloquire, poiché l’orizzonte che hanno a riferimento è costituito null’altro che dalle loro stesse parole.
Preciso, in ultimo, che non voglio prendere in considerazione neppure i rilievi improvvidi e improvvisi mossi dai professori di economia di ascendenza keynesiana e dai professori di storia di ascendenza letteraria, i quali sono rapidamente passati dalle manifestazioni di simpatia al voto negativo dato senza misericordia e senza appello, come avessero davanti gli statini di esame dei loro studenti. L’economista premio Nobel Paul Krugman, che pure era rumorosamente venuto ad Atene a sostegno di Tsipras, ha dichiarato con rammarico alla CNN “di aver sovrastimato la competenza del governo greco”, mentre, qui in Italia, l’insigne grecista e latinista Luciano Canfora ha ritirato precipitosamente le sue lodi a Tsipras e a Syriza, riscoprendoli di colpo come “ex-sinistra” e accusandoli, paradossalmente proprio a ridosso delle dimissioni del governo greco e della indizione di nuove elezioni, di “puntare, con qualunque alleato, ad andare al governo a qualunque costo per fare una qualunque politica” . A questa compagnia, che procede con la baldanza di chi è abituato ad impugnare la matita rossa e blu, va iscritto senza tentennamenti anche il professore ex-ministro Yanis Varoufakis, il quale dichiarava il 20 agosto scorso: “Abbiamo tradito e abbandonato il popolo greco”; e poi il 5 settembre sul quotidiano belga l’Echo: “Non c’è dubbio: il referendum è stato organizzato [da Tsipras] per essere perso”.
Per i cattedratici gli avvenimenti sono come il gioco degli scacchi. Si vince o si perde a seconda che si azzeccano o no le mosse giuste, e la storia è chiamata ruvidamente a confermare questo ineffabile convincimento. E se poi succede che le cose vadano da un’altra parte, non sia mai detto che la questione s’annidi nelle loro medesime teorie, nel possibile scarto tra quello che si pensava e il contesto reale degli avvenimenti! Per essi la verità rimane sempre piuttosto semplice: qualcuno avrà sicuramente imbrogliato, o si è imbrogliato, al tavolo di gioco. A ben vedere, questi eclettici cattedratici sono straordinariamente simili ai dogmatici, per i quali da qualche parte, normalmente ai vertici, c’è sempre il traditore di turno che si mette di traverso e non fa andare le cose come essi sapientemente avevano stabilito…
Esaurite le precisazioni, provo a riflettere, invece, sulle oscillazioni di giudizio venute direttamente dal cuore e dal cervello di militanti politici non dogmatici, non estetizzanti e non cattedratici. Faccio due esempi.
Il primo è Jean Luc Mélénchon, del Parti de Gauche (che ha raccolto l’11% alle ultime presidenziali francesi). Egli è stato linearmente dalla parte di Tsipras e di Syriza in tutto il periodo del braccio di ferro, parlandone come di un’esperienza esemplare. Dopo l’accordo, però, ha fatto sue senza soverchi problemi le invettive dell’ala scissionista di Syriza, sentenziando in una recente intervista: “[Tsipras] si è mostrato impreparato. Politicamente e teoricamente. Non ha misurato l’ampiezza del tornante europeo dopo l’approvazione del Fiscal Compact […]. E’ impreparato sul piano personale: che idea assurda, restare chiuso per 18 ore da solo, contro altre 17 persone!”.
Il secondo esempio è quello di Dino greco, ex responsabile della Camera del lavoro di Brescia, ex direttore del quotidiano “Liberazione” e attuale dirigente del PRC. La sua analisi, svolta negli organismi dirigenti di Rifondazione e resa pubblica su Internet, parte dal referendum vinto da Syrizia. Il giudizio è il seguente: “Syriza incassa un consenso enormemente superiore a quello che le aveva consentito di andare al governo, eppure Tsipras decide di non capitalizzarlo”. Così, “mentre in piazza Sintagma si festeggia, la segreteria del partito decide (a maggioranza) che al tavolo del negoziato non si rilancerà”.
Richiamo l’attenzione su due precisi concetti, espressi il primo da Mélénchon (“che idea assurda, restare chiuso per 18 ore da solo, contro altre 17 persone!”) e il secondo da Greco (“Syriza incassa un consenso enorme, “eppure Tsipras decide di non capitalizzarlo”).
È evidente che sia l’uno che l’altro ragionano come se le decisioni che si assumono in un determinato contesto storico provengono linearmente dai liberi desideri dei protagonisti, i quali sbagliano perché decidono (o desiderano?) in “modo assurdo” oppure in “modo codardo”. Questo sarebbe successo in Grecia.
Così Mélénchon non soltanto riduce le concrete forme con le quali il braccio di ferro si è svolto ad una mera idea assurda, quasi avesse potuto esserci tutt’altra modalità per farlo vivere; ma riconduce linearmente quell’idea assurda ad una scelta di Tsipras.
Non mi stupisco se si sorride di fronte a questa ricostruzione, poiché è evidente che essa non fa i conti con l’esistenza reale degli Stati e dei rapporti di forza tra gli Stati. E però, fino a un minuto prima della capitolazione, Mélénchon parlava della vicenda greca proprio come di uno scontro di portata storica per modificare l’Europa egemonizzata dalla Germania, dalla sua potenza economica e della potenza economica dei più forti paesi capitalistici. Come succede allora che la questione dei rapporti di forza, così presente nell’analisi quando lo scontro era in pieno svolgimento, non rientri più in gioco quando si tratta di analizzare l’esito amaro del medesimo scontro? Un semplice infortunio linguistico, che indubbiamente può capitare a chiunque? Una banale sciocchezza spiegabile con la delusione del momento?
Lascio per un attimo sospesi questi interrogativi e torno a Dino Greco. A differenza di Mélénchon, egli non chiama in causa la stupidità di Tsipras; introduce invece l’ipotesi di un suo gioco ambiguo, addirittura machiavellico, col referendum convocato “per finta”, né più né meno che un inganno lucidamente perpetrato nei confronti del popolo. La medesima tesi, in sostanza, di Varoufakis. Il gioco però non è andato a buon fine, costringendo Tsipras a uscire allo scoperto, e a fare direttamente quello che avrebbe avuto in testa fin dal primo momento, e cioè la “capitolazione” nei confronti dell’Europa.
Così Dino Greco: “Capita, talvolta, nella gestione di una vertenza difficile, caratterizzata da lotte e scioperi duri e prolungati, che il sindacalista che la guida si convinca (o tema) di non farcela, di non avere più frecce al proprio arco e avverta come insuperabile la forza del padrone che mette in atto rappresaglie, minacciando di chiudere la fabbrica. Come uscirne, considerato che la parte più combattiva dei lavoratori non demorde? La soluzione è quella di rimettere loro il giudizio, attraverso un pronunciamento che serva a decidere se continuare la lotta o a chiudere purchessia lo scontro ingaggiato. Il sindacalista sa che in questi frangenti, sotto la sferza del ricatto padronale, alla parte dei lavoratori che sta sempre col padrone si aggiunge quella meno combattiva e che anche nel proprio fronte, fiaccato dalla durezza del conflitto, si possono determinare degli smottamenti. Il sindacalista pensa, in definitiva, che perderà il referendum e che dovrà capitolare, ma che così salverà la coscienza perché saranno stati i lavoratori a deciderlo”.
Come è noto, Andreotti, democristiano di primissimo piano per circa trent’anni, diceva che a pensar male si fa peccato e però spesso ci si azzecca. Ma è davvero necessario assumere ad autorevole maestro Giulio Andreotti? O sarebbe più produttivo, anche sul piano strettamente interpretativo dei fenomeni e degli accadimenti, andare col pensiero al vecchio detto evangelico omnia munda mundis, e a quello che necessariamente poi ne consegue? Non mi nascondo, d’altra parte, come la schiettezza e la linearità delle vicende e dei ragionamenti siano merce rara ovunque, anche nella stessa “nostra parte politica”, e massimamente quando le ricostruzioni s’accompagnano alla polemica e all’invettiva…
In ogni caso, depurata da ogni altra considerazione, quella che Greco descrive è una pratica effettiva dei sindacalisti, ed egli, che ha vissuto una vita nel sindacato, sa evidentemente di cosa parla. Ma davvero lo scontro politico, e soprattutto lo scontro politico di spessore storico, può essere interpretato con le coordinate ristrette di una circoscritta vicenda sindacale, col suo corredo di bluff, rilanci, azzardi, arruffamenti ed imbrogli? Davvero una vicenda così drammatica, e drammaticamente alta, può essere narrata con la logica spicciola dei sindacalisti che hanno fretta di firmare e dei giornalisti che hanno fretta di titolare?
Ma le domande davvero decisive, tanto nel caso di Mélénchon quanto nel caso di Dino Greco, sono altre: com’è che si ha tanto difficoltà a leggere la sconfitta greca per quello che largamente è stata, e cioè l’esito assolutamente probabile dei reali rapporti di forza tra gli Stati e tra le classi sociali in questo nostro livido tempo? com’è possibile che non si consideri col dovuto rispetto, e soprattutto nel momento della sua massima difficoltà, il tentativo, forse velleitario, sicuramente generoso, fatto da Syrizia per modificare proprio quei rapporti di forza? e perché non si riesce a capire, trattandosi di un uno scontro di portata storica, come l’unica vera possibilità di vittoria dipendesse dalla rottura dell’isolamento del governo greco, rottura che non s’è verificata, nonostante le ambiguità di Italia e Francia? Ed infine: com’è che non si considera lo scontro sulla fisionomia dell’Europa alla stregua di una lotta di lunga durata (una vera e propria “guerra di posizione”, per dirla con Gramsci), e non si coglie che l’esito di sconfitta di oggi si accompagna comunque alla crisi ideologica del principio di austerità e a un inedito logoramento della brutale egemonia tedesca?
La mia risposta a questi interrogativi coincide con la medesima affermazione posta in premessa a queste pagine: è la crisi del pensiero dialettico e del concetto euristico di complessità a moltiplicare le spiegazioni ondivaghe, tarate sulle singole persone, finanche sulle loro astratte capacità di manovra, e non invece sui processi sociali complessivi. E’ la mancanza della visione dialettica e del senso storico della complessità a renderci soprattutto incapaci di raccordare quello che accade oggi con quello che può accadere domani.
La chiudo qui, poiché mi rendo conto di essermi dilungato troppo sull’esempio greco. Ma quello che ho detto a tal proposito, vale anche per tutti gli altri temi: dalle migrazioni alle guerre in corso, dalle lotte sociali specifiche alle vicende istituzionali. Su ogni questione i ragionamenti proposti dalle residue file di quello che fu il movimento operaio del Novecento risultano approssimativi, nel migliore dei casi; e addirittura risibili nel peggiore. E in aggiunta non c’è neppure una vera autonomia di pensiero: quello che si dice è fin troppo spesso una rimasticatura insipida di quello che scrivono non i pensatori più significativi delle classi dominanti ma proprio quelli facili-facili, pagati un tanto a rigo nelle redazioni dei giornali e delle tivvù.
Insomma, senza andare oltre, ritengo che non ci siano molte alternative per chi, come noi, si rende conto del disastro che abbiamo davanti. Il cambiamento dello stato di cose presenti ha bisogno per prima cosa, per primissima cosa, di una ripresa del dibattito culturale e dell’impegno sul versante dei fondamenti culturali della critica al capitalismo. LEF può essere uno strumento utile per questo impegno, e io vorrei che continuasse.
Se, come credo e spero, questo desiderio è anche il vostro, non resta che rimetterci tutti assieme al lavoro.